Prima che sia troppo tardi. Quando un’emergenza incrocia un’altra emergenza il rischio di una tragedia diventa concreto.

E con un sovraffollamento carcerario che supera le 13.000 unità, se il Covid- 19 attecchisse nei luoghi di detenzione, il rischio sarebbe reale.

Il governo non ne sembra avvertito. Per fronteggiare la diffusione del Covid- 19 l’esecutivo ha varato numerosi decreti che disciplinano gli aspetti ordinari del vivere civile: non saranno perfetti, ma testimoniano la volontà di affrontare la crisi anche interloquendo con le categorie interessate. I detenuti invece sono ancora una volta gli ultimi, quelli di cui ci si occupa alla fine, poco e male.

Il primo provvedimento governativo in materia aveva previsto il potenziale stop ai permessi premio e alla semilibertà e il divieto di colloqui visivi coi familiari, surrogati ove possibile da videochiamate. Fallimento prevedibile: le carceri italiane hanno strumentazioni tecnologiche obsolete e privare i detenuti del contatto con i congiunti o di un’ora di libertà senza avergliene spiegate le ragioni non poteva che causare tafferugli.

L’Unione delle Camere penali italiane ha proposto una serie di interventi specifici, ragionevoli e urgenti, tra i quali, chissà perché, l’esecutivo ha selezionato la sola detenzione domiciliare, limitandola alle pene residue o totali fino a 18 mesi ( anziché i 24 richiesti), escludendola per alcune categorie e subordinandola all’utilizzo del braccialetto elettronico, “ove disponibile”.

Anche così “depurata”, la norma avrebbe comunque consentito a quasi diecimila persone di lasciare i penitenziari e, quindi, agevolato una migliore gestione dell’emergenza.

In fase di approvazione del decreto Cura Italia però, il ricorso al braccialetto elettronico da facoltativo diventa obbligatorio. E siccome i braccialetti non bastano nemmeno per l’utilizzo in tempi ordinari, il provvedimento risulta di fatto applicabile soltanto in un numero di casi assai inferiore rispetto all’emergenza del momento.

Perché il governo abbia sabotato il suo stesso precetto o che ne sia dei braccialetti appaltati a Fastweb (12.000), già pagati dal 2018 e non ancora collaudati, già lo domanda con autorevolezza il presidente dell’Ucpi Caiazza (e solitamente non si acquieta di fronte al silenzio); inutile chiederlo ancora.

Ingenuo sarebbe peraltro auspicare provvedimenti di clemenza, dovuti a prescindere dal virus, per il solo fatto che le condizioni di vita dei detenuti sono talvolta di vera tortura. Provvedimenti così, necessari e intelligenti, cozzano troppo con la visione miope e sgrammaticata della pena tanto in voga dalle parti dell’esecutivo. Posticipiamo dunque alla fine dell’emergenza coronavirus ogni riflessione sulle responsabilità politiche quand’anche gravi.

Però, in questi giorni in cui si analizzano numeri, tabelle e curve, è dovere inderogabile di ciascuno provare a illuminare il cono d’ombra delle nostre prigioni e insistere con fronte metallica perché la stessa attenzione sia dedicata a tutti i consociati, fuori o dentro la gabbia. Si metta da parte, nel tempo della peggiore calamità del dopoguerra, ogni divergenza concettuale sul tema del reato e della pena, demandando al prosieguo il dibattito sulla fondatezza filosofica delle rispettive posizioni; si rimetta, insomma, al centro la tutela dell’essere umano, specie del più debole, affidato alla cura dello Stato, smettendo di suonare quel dannato pianoforte mentre la nave affonda.

Se mancassero idee su come fare, dalle parti di via del Banco di Santo Spirito, sede dell’Unione Camere penali, regalano suggerimenti.

*Direttivo camera penale di Roma