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C’è una calma apparente che attraversa l’Ucraina in guerra. Ma è una quiete che si spezza un check point dopo l’altro, lungo le dieci ore di autobus che ci separano dal confine polacco, Medyka, a Kyiv. Alle porte della capitale incontriamo i primi segni della distruzione: su tutti un ospedale pediatrico ridotto in macerie, che racconta l’inizio di questo conflitto. Le ore più dure. Ai bordi della strada alcune donne vendono bacche raccolte nei boschi e delle piante essiccate. Ci domandiamo chi possa fermarsi a comprarle, «ma è un lavoro redditizio» - ci spiegano. Poi entriamo in città, a Kyiv, e la vita sembra scorrere senza grosse anomalie. Qui e là un passante, nelle strade svuotate dall’incubo di un attacco improvviso. Chi è rimasto sa bene di rischiare la vita, ma non ha dubbi: «è qui che bisogna stare». Alla paura ci si abitua, col tempo, è più importante testimoniare, aiutare, restare aggrappati al proprio paese. Chi incontriamo ha fame di raccontare, vuole che i nostri occhi siano i loro, per spazzare via ogni dubbio. Noi siamo stanchi, distrutti: alle 8 di domenica mattina abbiamo superato il confine a piedi - abbiamo attraversato Leopoli, bellissima e appannata - e quando arriviamo al nostro albergo, in serata, ci sembra di aver compiuto una missione. Siamo quasi in 60, da tutta l’Italia, partiti con la delegazione del Mean. Ognuno con le proprie ragioni, le proprie idee. Siamo diversi, per età e formazione. Attivisti, volontari, medici, giornalisti. Anche Fra Fedele, da Ischia, che durante il viaggio ci suona la pace col suo strambo strumento. Ma ognuno di noi presto si rende conto, in egual misura, che non c’è alcuna “missione” da raccontare. Non la nostra, almeno. C’è solo da ascoltare, guardare, e restare in silenzio. La guerra che andavamo cercando si nasconde nella normalità. E’ più sottile, subdola, di come appare al Tg. Lo dice bene Dima, avvocato ucraino: «Il 24 febbraio c’era la guerra in Tv, ma anche fuori dalla mia finestra. E’ la dimensione in cui sono immerso». Si fa fatica a capirlo. Le attività sono aperte, i palazzi in piedi. Ma potrebbero crollare da un momento all’altro. Ecco l'inganno: della quiete si ha bisogno, per fingere di poter vivere ancora. Chi lavora si divide tra le proprie mansioni e il supporto al fronte e alla popolazione, ognuno come può. Alle 11 scatta il coprifuoco. Una decina di volte al giorno scatta l’allarme: una app circoscrive il pericolo e consiglia di raggiungere i rifugi. È capitato anche a noi, appena arrivati al nostro albergo domenica sera. Gli ucraini restano in superficie. Noi no, abbiamo paura, ci nascondiamo nella palestra adibita a rifugio. Qualche ora più tardi, all’1.30, l’allarme rientra. Andiamo a dormire confusi e un po’ imbarazzati: abbiamo vissuto per una notte ciò che gli ucraini vivono da cinque mesi, e sembra un’enormità. E lo è, per quanto si possa fingere che la vita continui. Perché il tempo sì scorre, ma senza sapere dove porterà. Arriverà la pace? L’Ucraina vincerà la guerra? Deve vincere e vincerà, ripetono i nostri interlocutori. Il peggio si può subirlo, ma non aspettarselo. E perciò si vivono due vite in Ucraina, nel tempo della normalità e dell’emergenza. C’è la vita di prima, e la vita di dopo. Con un trauma insanabile nel mezzo. «Se odio i Russi? No di certo», mi spiega un ragazzo rimasto ferito al fronte. Persino l’odio è uno spreco di energie. Si tratta soltanto di resistere resistere resistere. Lo capiamo anche noi, che siamo venuti qui «a costruire la pace», da «pacifisti concreti», per usare le parole di Luigi Manconi. Appena 12 ore dopo la nostra partenza da Cracovia, in Polonia, sembriamo già diversi. Sul bus - i due bus, con staffetta al confine - che ci hanno portato qui abbiamo ascoltato le storie degli ucraini che ci danno una mano. Senza di loro non riusciremmo neanche a comprare l’acqua alla stazione di rifornimento. E anche solo fare benzina, per loro, è un lusso. È un lusso scappare. Noi invece rientreremo presto. E negli occhi ci portiamo le armi, i cuscini ammassati a difesa in mezzo alla strada, ai bordi, ovunque. Bisogna aver visto, si dice. Ma bisogna anche agire. «Fornite anche supporto psicologico?», chiedo a un attivista ucraino che dà sostegno alla popolazione con aiuti umanitari. «Qui non c’è alcun tempo per pensare», mi ammonisce. Ed è la sua voce dura e severa, di chi aiuta con delicatezza - rifletto - che spiega davvero la guerra. La guerra subita, che cerca la pace.