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I servizi israeliani sono storicamente maestri nel costruire ragnatele di informatori in Paesi ostili e in condizioni spesso proibitive, come dimostra la l’operazione militare Rising Lyon. Per oltre un anno il Mossad ha trasportato i componenti di centinaia di droni esplosivi, armi di precisione e attrezzature tramite finti camion e container commerciali mentre squadre operative sotto copertura hanno agito in zone strategiche, nei dintorni di impianti radar e dei siti di difesa aerea, per posizionare i piccoli velivoli esplosivi.
Per la prima volta o quasi lo Stato ebraico si ritrova esposto a un’operazione speculare. Teheran è infatti riuscita a infiltrare diversi agenti all’interno del territorio nazionale, reclutando cittadini israeliani per raccogliere informazioni, localizzare obiettivi sensibili e – in alcuni casi – preparare attentati. Nelle ultime settimane, la polizia e lo Shin Bet hanno arrestato decine di persone: tutte nate e cresciute in Israele e tutte di confessione ebraica, degli insospettabili insomma. L’ultimo caso, all’inizio di luglio, ha portato cinque sospetti davanti al giudice con l’accusa di spionaggio.
Secondo fonti investigative, alcuni di questi infiltrati avrebbero offerto supporto informativo durante la breve ma intensa guerra dello scorso giugno in cui i missili di Teheran sono riusciti a centrare diversi obiettivi, militari e civili. Sei basi dell’esercito sono state colpite da droni e missili: tra queste, la base aerea di Tel Nof, quella di Glilot (sede del quartier generale del Mossad), e persino l’Istituto Weizmann di Rehovot, uno dei pricipali poli della ricerca scientifica israeliana. Le autorità israeliane ritengono che la precisione degli attacchi sia il frutto di un’attività spionistica di alto profilo animata da persone addestrate e capaci. Alex Nemirovsky, comandante dell’unità anti-spionaggio del Lahav 433 (la “FBI israeliana”), è categorico: «Non si tratta di giovani ingenui che fanno qualche foto per gioco. Sono strutture organizzate, con ruoli precisi e consapevolezza piena di ciò che stanno facendo».
Il caso più emblematico è quello di un gruppo di sette israeliani di origine azera, arrestati lo scorso settembre 2024: avevano effettuato oltre 600 sopralluoghi in due anni, affittando appartamenti nei pressi di basi militari e fondando una falsa agenzia turistica per avere accesso ad aree sensibili. Il più anziano ha vent’anni, il più giovane è un minorenne. Uno di loro era in servizio militare attivo. In cambio, avrebbero ricevuto almeno 300mila dollari in criptovalute.
Dopo l’arresto, sono stati trasferiti nella prigione di Damon, vicino Haifa, in una sezione separata da quella dei detenuti palestinesi. Le condizioni sono descritte come «molto severe». Se condannati, rischiano pene pesantissime, fino all’ergastolo.
Il primo a essere giudicato è stato Mordechai “Moti” Maman, 72 anni, già noto alle forze dell’ordine per traffico di droga. Condannato a dieci anni, è accusato di aver compiuto due viaggi clandestini in Iran partendo dalla Turchia e di aver ricevuto l’ordine di assassinare una figura politica israeliana.
A parte il caso di Maman il profilo degli infiltrati preoccupa le agenzie sicurezza: in gran parte sono infatti giovani o giovanissimi, spesso con radici nei Paesi dell’ex Urss, vengono contattati dall’intelligence di Teheran tramite social o canali criptati. Le prime richieste sono banali: 100, 200, al massimo 1000 dollari per fotografie di edifici militari o per realizzare scritte murali contro il governo Netanyahu, più è importante l’obiettivo maggiore il compenso. Secondo Shalom Ben Hanan, ex ufficiale del controspionaggio dello Shin Bet, si tratta di un «processo a tappe»: le prime missioni servono a testare la disponibilità e l’affidabilità, poi si sale di livello.
Il giornalista investigativo Ronen Bergman, autore di uno studio sull’intelligence israeliana sottolinea il salto di qualità: «Fino a pochi anni fa solo la Siria era riuscita a infiltrare spie nelle comunità ebraiche nei villaggi del Golan. Oggi l’Iran, usando Paesi terzi come Azerbaigian e Turchia, riesce a penetrare direttamente in Israele, arruolando i suoi stessi cittadini».
Il numero ufficiale di arresti questa settimana è salito a 45. Ma secondo fonti interne allo Shin Bet, l’entità del fenomeno è ancora sottostimata. Non tutti agiscono per arricchirsi: alcuni dei giovani reclutati manifestano un forte disagio, un senso di estraneità se non di aperta ostilità verso il governo e la classe politica.
Lo scorso 10 luglio un gruppo di hacker iraniani ha pubblicato online un database sottratto alle forze armate israeliane: centinaia di nomi, indirizzi e specializzazioni di ufficiali in servizio. Un colpo brutale all’immagine di invulnerabilità del sistema di sicurezza israeliano, che mai come oggi appare penetrabile dallo storico nemico.