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Biden Putin
Vladimir Putin detesta talmente tanto i social network da non avere neanche un profilo personale registrato, ma li usa da anni per condizionare l’opinione pubblica di mezzo mondo. Magari per contribuire a determinare la vittoria elettorale di un candidato non ostile a Mosca, così come si sostiene sia accaduto nel 2016 con la vittoria di Donald Trump su Hillary Clinton. “The Donald”, dal canto suo, è uno dei presidenti più social della storia americana. L’ex inquilino della Casa Bianca ha una passione così compulsiva per i tweet e i post da finire bannato da tutte le principali piattaforme. Un blocco che ha convinto Trump a creare un proprio social network, “Truth”, per esprimere liberamente i propri pensieri. L’app della nuova piattaforma, scaricabile sull’Apple Store dalla fine di febbraio, non sembra essere partita sotto i migliori auspici (gli utenti lamentano vari malfunzionamenti) ma il magnate repubblicano sembra intenzionato a proseguire comunque per la sua strada. Anche perché il motivo della censura dei suoi profili Twitter e Facebook - e di quelli di altri 70 mila account riconducibili al movimento proTrump QAnon - è molto serio: incitazione alla violenza registrata durante l’assalto di Capitol Hill. Twitter - il social network preferito da Trump, quello che secondo molti analisti ha determinato la vittoria del 2016 - ha motivato l’epurazione accusando l’ex presidente americano, di aver «incoraggiato i suoi sostenitori a interrompere la certificazione della vittoria del democratico Joe Biden da parte del Congresso ».Trump, del resto, ha sempre usato le piattaforme a proprio vantaggio. Durante la campagna elettorale contro Clinton per creare consenso, danneggiare l’avversaria, diffondere fake news virali. Anche attraverso l’uso massiccio di bot, profili automatizzati che cliccano “Like”, condividono link e postano contenuti sfidando gli algoritmi e gonfiando i numeri intorno a certi temi. Obiettivo: creare una popolarità artefatta. Ed è proprio su questo terreno che entra in scena il ruolo di Mosca. Putin, che in patria ha proibito l’accesso alla rete libera, fuori dai confini, usa Internet per condizionare il destino politico delle democrazie. L’arma del Cremlino si chiama Internet Research Agency, più nota come “fabbrica di troll”, che secondo un’indagine del dipartimento della Giustizia americano interferì nella campagna elettorale statunitense del 2016. L’ufficio del procuratore speciale statunitense Robert Mueller, a capo dell’indagine sulle presunte interferenze russe, è arrivato a inaccusare 13 persone di nazionalità russa di cospirazione per frodare gli Stati Uniti, cospirazione per commettere frode bancaria e furto di identità. Oltre agli attacchi informatici rivolti al comitato elettorale di Clinton, la “fabbrica dei troll” avrebbe creato centinaia di account falsi per condurre «una guerra dell'informazione contro gli Stati Uniti d'America» al fine di diffondere sfiducia e sostenere l'elezione di Trump. Un impegno da milioni di dollari al giorno. «Abbiamo determinato che il presidente russo Vladimir Putin ha ordinato nel 2016 una campagna per influenzare l'elezione presidenziale Usa. L'obiettivo dei russi era quello di minare la fiducia dell'opinione pubblica americana nel processo elettorale democratico, denigrare il segretario di Stato Hillary Clinton, e danneggiare la sua eleggibilità in quanto potenziale presidente », si legge nel testo curato dal direttore della National Intelligence, James Clapper, responsabile dimissionario del coordinamento delle 17 agenzie di spionaggio e controspionaggio Usa. Per tutta la campagna elettorale gli account falsi si sarebbero presi la briga di lanciare costantemente sui social contenuti divisivi su argomenti come Black Lives Matter, immigrazione e controllo delle armi. E avrebbero comprato pubblicità politiche contrarie a Clinton e pompato hashtag come #Hillary4Prison e #TrumpTrain.L’attività di interferenza però non si sarebbe fermata nel 2016, ma sarebbe proseguita anche alle presidenziali successive, tanto da spingere Facebook e Twitter a bloccare preventivamente (dopo le segnalazioni dell’Fbi) una rete di profili falsi pronti a iniziare una campagna di disinformazione. Anche in questo modo il trumpismo sarebbe diventato virale negli Usa e in buona parte dell’Occidente. A raccogliere i benefici di quel vento in Italia è stato soprattutto Matteo Salvini, capace di portare la Lega da 4 per cento di pochi anni fa al 34,3 per cento delle Europee 2019. Politico social per eccellenza, anche il leader del Carroccio ha usato sapientemente il suo ufficio comunicazione, la “Bestia” messa in piedi da Luca Morisi, per rendere popolare il sovranismo sul web, sfruttando a proprio vantaggio le paure degli elettori. Post contro l’immigrazione e l’Unione europea, intervallati da concorsi a premi (come il “vinci Salvini”) erano il pane quotidiano di un team di esperti attenti a sondare quotidianamente e scientificamente gli umori della Rete per ottenere il maggior engagement possibile. Che almeno fino a un certo punto si sono poi trasformati in voti.