In Israele i racconti dei prigionieri liberati dalla Striscia di Gaza iniziano a emergere dal buio. Non sono ancora testimonianze ordinate, nessuna intervista ai giornali o alle tv, ma frammenti, piccoli flash per lo più affidati alla voce dei familiari perché in pochi hanno voglia di parlare. Ma anche da quei ricordi parziali viene fuori la durezza estrema della cattività, la violenza fisica e psicologica, la fame, la paura costante, una condizione miserabile attraversata, a tratti, da sorprendenti bagliori di umanità.

I genitori di Matan Angrest, un soldato ventiduenne catturato durante l’attacco al festival Tribe of Nova il 7 ottobre 2023 racconta che suo figlio è stato maltrattato, picchiato fino a perdere conoscenza, costretto a vivere in un loculo senza luce, in silenzio, senza mai sapere se la guerra fosse finita. I carcerieri, che volevano sfiancarlo nello spirito, indurlo alla rassegnazione gli dicevano che Israele lo aveva dimenticato, che i suoi nonni – sopravvissuti alla Shoah – erano stati uccisi. Quando ha scoperto che erano sani e salvi, ha raccontato la madre al quotidiano Yedioth Ahronoth quella notizia «lo ha rimesso in piedi». Non ci sono state soltanto umiliazioni per Matan; con un comandante di Hamas era riuscito a creare un rapporto di rispetto: «Un giorno gli ha portato una copia della Torah e i tefillin, gli astucci di preghiera ebraica». Un segno minimo di riconoscimento tra nemici.

Storie simili emergono da altre prigionie. Rom Braslavski, ventun anni, guardia di sicurezza sempre al festival Nova, è stato affamato e torturato per settimane; i suoi aguzzini, secondo il racconto della madre, gli negavano il cibo perché non voleva convertirsi all’Islam.

A un altro ostaggio, Omri Miran, 48 anni, padre di due figli e massaggiatore shiatsu, rapito in un kibutz, è andata decisamente meglio; era riuscito a farsi benvolere probabilmente perché non è un militare: «Cucinava sempre per i suoi carcerieri, che adoravano le sue ricette e spesso giocavano a carte insieme, era un abitudine, un modo di sopravvivere per Omri e di sentirsi meno disumani per i miliziani», spiega il fratello.

Sono momenti drammatici ed estremi in cui la crudeltà convive con la possibilità di piccoli scambi, come se dentro la prigionia, in quell’intimità forzata, per alcuni momenti ognuno dimenticasse il proprio ruolo. In un’intervista a Haaretz, il padre di Nimrod Cohen ha raccontato che il figlio, malato e febbricitante, ha ricevuto cure mediche e perfino un cubo di Rubik da parte di un combattente che sapeva quanto gli piacesse.

Non mancano, naturalmente, le atrocità. A volte innescate dai comportamenti dei falchi del governo Netanyahu. Diversi ex prigionieri dicono di essere stati picchiati con brutalità dopo ogni dichiarazione del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir sui detenuti palestinesi. Uno di loro, Segev Kalfon, ha precisato che ogni volta che il ministro parlava pubblicamente evocando rappresaglie e torture contro i detenuti politici, i carcerieri sfogavano la rabbia su di lui. Altri ancora ricordano le punizioni inflitte dopo le ondate di bombardamenti israeliani.

Tal Shoham, liberato dopo 505 giorni, ha detto: «Eravamo concessi appena 300 calorie al giorno e 300 ml d’acqua. Sentivamo l’aria rarefatta. In una stanza accanto a noi i carcerieri avevano cibo per mesi, rubato dagli aiuti umanitari. Ci hanno affamati di proposito, in modo sadico». In altri casi, la convivenza forzata generava dinamiche imprevedibili. Alcuni ostaggi erano spostati da una casa all’altra, nascosti tra le famiglie palestinesi che li ospitavano sotto minaccia. «Una donna anziana mi dava da bere di nascosto — ha detto uno di loro —, poi pregava che nessuno la vedesse. Non so se l’ha fatto per compassione nei miei confronti o per paura di Dio».

Alcune donne hanno parlato di condizioni estreme: una di loro ha passato 49 giorni senza dormire perché gli era stato tolto l’erogatore d’ossigeno di cui aveva bisogno per respirare, un’altra entra nei dettagli delle privazioni fisiche: «Cucinavamo con un solo piatto di riso al giorno, lavandoci una volta a settimana con acqua fredda».

Queste testimonianze contraddicono, almeno in parte, la narrazione ufficiale del governo di Benjamin Netanyahu, che continua ha sempre giustificato le operazioni militari nella Striscia— più di 68.000 morti palestinesi in due anni, la maggioranza civili — come l’unico mezzo per «liberare tutti gli ostaggi». In realtà, spiegano i familiari, proprio quei bombardamenti continui su Gaza hanno messo a rischio la vita dei loro figli e in alcuni casi li hanno uccisi direttamente. Una rottura traumatica con la tradizione dello Stato ebraico per il quale la vita dei propri cittadini è sacra e ha sempre contato più di ogni altra cosa. Senza dubbio più delle ambizioni personali di un premier e del suo governo di estremisti.