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crisi ucraina
La crisi apertasi con l'invasione dell'Ucraina è di quelle destinate a cambiare il mondo e a modificare tutto. Ma di quanto e in quale senso è ancora impossibile affermarlo con certezza: dipenderà in gran parte dagli sviluppi, oggi avvolti nelle tenebre del confronto militare e poi diplomatico. Quel che però è già chiaro è che la posta in gioco, e in parte anche il terreno sul quale si combatte la guerra tra occidente e Russia, è la globalizzazione. Di certo, quando le bombe smetteranno di piovere non sarà più quella di prima, e anche in questo caso molto dipenderà da quale peso avrà avuto alla fine la globalizzazione stessa nel far tacere le armi. Quesito a tutt'oggi inevaso.
Contro la Russia l'occidente ha usato e adopera le armi che la globalizzazione mette a disposizione dell'area del mondo di gran lunga più importante sul fronte degli scambi economici e finanziari. La formula che si sente ripetere ogni giorno, quella che vuole la Russia “completamente isolata”, ha senso solo se la si interpreta secondo questo codice.
Certo, si sottraggono alle sanzioni Paesi come la Cina, l'India e la Turchia, abitati da circa 4 miliardi di persone, due terzi della popolazione del pianeta. Ma siccome Putin non trova sponde in occidente si può a buon diritto asserire che è “completamente isolato”, perché da quel punto di vista, quello dell'economia e della finanza integrata, il peso dell'occidente è preponderante.
L'offensiva, o la controffensiva, è stata davvero di proporzioni inaudite, non solo gli Stati ma anche le singole aziende, tutte e ciascuna, con uno slancio che rivela, più che la profondità dello sdegno, l'urgenza di chiudere la partita il prima possibile, quindi spendendo subito il massimo volume di fuoco. L'economia e la finanza, il capitalismo manifatturiero e quello di Wall Street hanno bisogno di tornare alla pace presto e la vittoria su una Russia strangolata dalle sanzioni sembra la sola strategia che possa arrivare a quell'obiettivo.
Però non è affatto detto che ci arrivi. Perché Putin ha rovesciato il tavolo mettendo sul piatto della bilancia quel che l'occidente credeva bandito, o meglio confinato in altre e meno fortunate aree del mondo: il peso della forza svincolata dalle pastoie della deterrenza. Ma alla lunga soprattutto perché l'instabilità apre alla possibilità di rivolgimenti meno vistosi ma di più profondo impatto: la creazione di sistemi di pagamento alternativi al Swift e dunque al dollaro, la messa in crisi del dollaro come unità di misura e scambio planetario. In sintesi l'estirpazione delle radici stesse della globalizzazione. D'altra parte, se la globalizzazione è l'arma di cui dispone l'occidente, è però anche la minaccia che oggi si ritrova a temere. Valga per tutti un esempio concreto: dopo l'energia il comparto più flagellato dalle sanzioni in Italia è quello agro- alimentare.
Per la penuria di materie prime, grano tenero e mais, ma ancor più per la sospensione delle forniture dei fertilizzanti, settore nel quale la Russia vanta un quasi monopolio. L'occidente si è svegliato bruscamente da un sogno nel quale la ripartizione planetaria della produzione e degli approvvigionamenti basata sulla logica del maggior profitto diventa una bomba a orologeria, perché in caso di crisi come quella che stiamo vivendo quella comoda divisione planetaria della produzione diventa l'incubo di un occidente a corto di prodotti e di materie prime.
I piani ai quali ha fatto più volte allusione Draghi, con la differenziazione delle fonti di approvvigionamento e l'accelerazione massima del passaggio alle rinnovabili “autarchiche” oltre che pulite, è certamente una strada obbligata. Ma è anche un strada con pedaggio salato, sia perché la stessa legge del mercato renderà l'energia comprata su mercati diversi da quello russo sia perché la stessa corsa frenetica alla riconversione tramite rinnovabili costerà a propria volta parecchio. La tenuta della Russia soffocata dalle sanzioni è un'incognita, ma lo è anche quella delle opinioni pubbliche occidentali, soprattutto se la crisi sarà, come profetizza Draghi, di non breve durata. Alla fine, e sempre augurandosi che il confronto non pieghi verso la direzione puramente militare, della struttura del mondo che abbiamo conosciuto negli ultimi trent'anni, di questa globalizzazione se non della globalizzazione in generale, resterà ben poco.