Giuseppe Uva viene fermato nella notte dai poliziotti di Varese, mentre da ubriaco commette atti di vandalismo per strada. Alle 3.45 viene identificato e portato in caserma assieme all’amico Alberto Biggiogero, la cui testimonianza è stata considerata inattendibile durante il processo.In caserma i due vengono separati e portati in celle differenti ed è proprio Biggiogero a fare una prima telefonata al 118, sentendo le urla dell’amico. I militari, contattati dal personale del pronto soccorso, però, minimizzano la situazione definendo i due “degli ubriachi”. Di lì a poco, sono gli stessi carabinieri a chiamare l’ambulanza per Giuseppe Uva. L’uomo viene portato all’ospedale di Varese alle 5.40 e viene sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio, durante il quale i sanitari gli somministrano dei calmanti. L’ora della morte viene attestata alle 10 della mattina successiva, il 14 giugno 2008.Il processoI pm titolari dell'inchiesta avevano per due volte chiesto l'archiviazione del caso, sempre respinta dal giudice per le indagini preliminari. Infine, il procuratore generale di Varese aveva avocato a sè l'indagine: un cambio di rotta che aveva riacceso le speranze della famiglia di Uva. La famigliaLa sorella di Giuseppe, Lucia Uva, ha sempre sostenuto che l’operaio quarantatreenne sia stato massacrato di botte e ridotto in fin di vita dalle forse dell’ordine. Per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, la donna aveva anche pubblicato le immagini del corpo tumefatto di Uva. Costituita parte civile, aveva chiesto un risarcimento simbolico di 4 euro, uno per ogni capo d’accusa. Nelle scorse settinane, molte polemiche erano nate dalla decisione di Lucia di pubblicare sul suo profilo Facebook la foto del poliziotto coinvolto nell’inchiesta, con scritto: «Noi vittime dello Stato vogliamo solo la verità e non ci fermeremo fin quando i colpevoli non verranno tutti fuori».