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Sergio Paparo
Alla fine, ci siamo: ma dove esattamente? Il Congresso nazionale forense è un luogo (Lecce, bellissima), e insieme non lo è. Piuttosto, un incrocio di molti luoghi: un po’ come un “hub” aeroportuale, affollato di persone, dei loro percorsi, delle loro idee. Attraversato da molte linee di pensiero, diverse tra loro ma che giungono tutte ai nodi cruciali della professione forense com’è oggi.
Il Congresso, insomma, è un’occasione. Per guardarsi intorno, per capire cosa pensano dei tuoi stessi problemi gli altri che - intorno a te - vivono la tua stessa realtà. Per constatare che la professione dell’avvocato è in continuo cambiamento, e che essere conservatori per principio non serve. Il Congresso consente di guardare quello che è evidente e che tutti già sappiamo (anche se poi magari focalizziamo lo sguardo su pagliuzze più lontane): c’è – prima di tutto - un rapporto inscindibile tra la professione forense e la giustizia.
Nulla di retorico, sia chiaro: è tutto molto concreto. Quando cambia la funzione giustizia, come servizio reso ai singoli e alla collettività, cambia la nostra professione. Se la giustizia entra in crisi, se c’è una fuga dal processo, se cadono i numeri dei ricorsi, se il giudizio non è in grado di dare risposta alle esigenze di chi ne è parte, tutto ciò si riflette direttamente sulla professione. E, d’altro canto, se si abbassa il livello di competenza e di serietà professionale, se si deprime l’impegno e l’entusiasmo degli avvocati ose si perde la stessa identità della professione, non è solo un problema degli avvocati: è il funzionamento della giustizia che ne risulta leso.
Viviamo un momento di riforme. Forse in larga parte imposte, ma sono riforme importanti: nel processo civile, in quello penale, nel tributario, perfino nel tradizionale mondo della giustizia amministrativa.
Chi ha la responsabilità di tali riforme – non contano colori politici e avvicendamenti al vertice - non può fare a meno di coinvolgere l’avvocatura. E l’avvocatura non può disimpegnarsi sui contenuti delle riforme. Non c’entrano privilegi da mantenere (ma quali?), né quantità di cause che debbano rimanere pendenti per garantire un reddito a chi le patrocina (se ancora qualcuno crede che funzioni così). C’entra la necessità di essere insieme nel cercare i modi per migliorare la situazione attuale. C’entra, per noi avvocati, l’essere responsabili di una funzione che concorriamo ad assicurare.
Cercare di migliorare spesso vuol dire cambiare, con tutte le difficoltà di adattamento che ne derivano. E niente può essere a priori sottratto al cambiamento perché tutto deve adeguarsi a un mondo che cambia.
È bastata una generazione per renderlo evidente. Avrei dovuto cercare in un catalogo gli hotel (o rivolgermi a un’agenzia di viaggi), procurarmi una piantina di Lecce, prenotare per telefono inviando vaglia postali, muovermi per aeroporti e stazioni portandomi dietro libretti di orari e appunti e ricevute, girare con una quantità di contanti, munirmi comunque di un salvadanaio di gettoni telefonici e sperare di trovare cabine a volontà per ogni contatto con chiunque, colleghi, clienti, familiari; al limite, concordare con un portiere d’albergo l’arrivo – alle frontiere della tecnologia – di qualche fax traslucido, leggibile solo in controluce e irrimediabilmente arrotolato. E comunque lo studio mi avrebbe dato per disperso fino al mio ritorno… Insomma, se cambia così profondamente il modo di vivere e di lavorare, come possono non cambiare la professione e la giustizia?
Certo, i discorsi sull’intelligenza artificiale – a parte quel che significhi davvero - mettono francamente un po’ di preoccupazione: se aumentano i casi in cui l’attività dell’avvocato diventa un lavoro “in automatico”, non credo che la nostra professionalità migliori. Ma, in ogni caso, è uno sviluppo cui non serve opporsi; si impone da sé. Si deve invece esserne consapevoli. Non per lamentarsene, ma per provare a usare al meglio ciò che di nuovo è disponibile, salvaguardando i valori di fondo nell’evoluzione del mondo in cui viviamo.