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A demonstrators holds a sign Thursday June, 4, 2020 in Santa Clarita, Calif., during a protest over the death of George Floyd who died May 25 after he was restrained by Minneapolis police. (AP Photo/Marcio Jose Sanchez)
«I can’t breathe». Solo tre parole, sussurrate per nove minuti con la gola schiacciata dal ginocchio dell’agente di polizia Derek Chauvin, le ultime della sua vita. Cinque anni fa l’afroamericano George Floyd moriva in una strada di Minneapolis durante un controllo di polizia. Era disarmato.
Le immagini del volto premuto sull’asfalto, gli occhi terrorizzati, il fiato che si spegne lentamente mentre implora pietà erano state riprese da un passante e hanno fatto il giro del mondo. E quell’espressione «non riesco a respirare» non era solo un grido di disperazione individuale ma il simbolo di un’intera comunità che fatica a respirare sotto il peso dell’ingiustizia e della discriminazione. Nei mesi seguenti nasce il movimento Black lives matter, milioni di persone scendono in piazza negli Stati Uniti e altri Paesi, una mobilitazione senza precedenti che ha riportato al centro del dibattito pubblico la brutalità della polizia e il razzismo sistemico negli Stati Uniti.
Eppure, a cinque anni da quel giorno maledetto, nulla sembra davvero cambiato. Al contrario. Secondo un’inchiesta del New York Times, basata su dati raccolti dal progetto Mapping Police Violence, negli ultimi cinque anni le uccisioni da parte delle forze dell’ordine sono aumentate anziché diminuire. Nel 2024, la polizia americana ha ucciso 1.226 persone, con un incremento del 18% rispetto all’anno precedente alla morte di Floyd. Neri e ispanici continuano a essere i più colpiti, in buona parte uccisi nel corso di scontri a fuoco con le forze dell’ordine, ma sempre più spesso in circostanze assurde a causa dell’uso sproporzionato della forza nei confronti di individui inermi.
Durante la campagna presidenziale del 2020, Joe Biden aveva promesso una riforma radicale della polizia americana. Il nome della legge doveva essere emblematico: George Floyd Justice in Policing Act e prevedeva l’abolizione delle tecniche di strangolamento, l’uso obbligatorio delle bodycam per gli agenti e l’istituzione un registro nazionale dei poliziotti coinvolti in casi di abuso. E infine la limitazione della cosiddetta immunità qualificata, un principio che protegge gli agenti da molte forme di responsabilità legale.
Il disegno di legge venne approvato alla Camera, ma si arenò al Senato, allora controllato dai repubblicani. Nel maggio 2022, Biden fu costretto a ripiegare su un ordine esecutivo, dal valore simbolico e dall’efficacia limitata, soprattutto in un Paese dove la polizia è frammentata in migliaia di corpi autonomi, ciascuno con regole proprie.
Paradossalmente, sono stati gli Stati federati, e non il governo centrale, a muoversi con più decisione contro gli abusi di polizia. Secondo il Howard Center for Investigative Journalism, tra il 2020 e il 2022 sono state approvate circa 300 nuove leggi a livello locale, con interventi su formazione degli agenti, uso della forza e obblighi di trasparenza. La California, ad esempio, ha messo al bando le prese al collo, mentre Utah, Oregon e Arizona hanno imposto agli agenti l’obbligo di segnalare l’uso eccessivo della forza da parte dei colleghi.
Tuttavia, l’efficacia di queste misure è rimasta circoscritta. Negli Stati più progressisti, le morti causate dalla polizia si sono stabilizzate; in quelli più conservatori, invece, sono aumentate drasticamente. Sempre secondo il New York Times, una possibile spiegazione è la reazione ostile al movimento per la riforma della polizia: in molti Stati repubblicani, le autorità avrebbero rafforzato il potere delle forze dell’ordine proprio in risposta alle manifestazioni del Black lives matter. L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha fatto il resto, rendendo impensabile la riforma della polizia.