PHOTO
Pasolini
«Dopo la mia morte, perciò, non si sentirà la mia mancanza» – così scrisse in Trasumanar e organizzar. Ci manca Pasolini?
Ci manca anche Sciascia, e tanto; e ci manca Calvino, e altri – anche se non è lungo l’elenco degli “irregolari”, partigiani senza esercito, la cui voce illuminata o pacata o ironica arrivava come un tuono. Ma Pasolini di più, se così si può dire. E ci manca di più perché Pasolini era dove non ti aspettavi mai dove avresti pensato che sarebbe stato. Fu contro l’aborto, Pasolini, e contro il divorzio, mentre il paese si spaccava nei referendum, fin dentro le famiglie. Fu contro gli studenti che “imberbi” iniziavano il loro Sessantotto a Valle Giulia, Roma – che avevano la stessa faccia dei loro padri che contestavano, mentre lui stava con i poliziotti, facce di figli del popolo. E ogni volta non eri d’accordo con lui, e ogni volta ti scavava dentro e vi lasciava i semi del suo pensiero, a crescersi. Non era solo una “postura”, la sua – quella dell’intellettuale che è contro. Che contraddice il mondo, iniziando a contraddire se stesso. Era uno sguardo, una complessità di pensieri. Era lo sguardo poetico – disarmato, sacro, violento. Mai consolatorio.
Per questo ci manca Pasolini – senza volerlo tirare per la giacchetta, questo macabro esercizio di “riesumare” persone che hanno detto cose importanti per fargliene dire altre su cui chissa come si sarebbero espressi. Eppure – cos’avrebbe detto Pasolini del DDL Zan? Cos’avrebbe detto Pasolini dell’eutanasia? Oh sì, che ci manca Pasolini. Cosa avrebbe detto di questa guerra?
Non dovremmo mai fare di Pasolini un mito, lui per primo se ne sarebbe irritato. Non è il “pasolinismo” che ci manca, anzi, di questo proprio – ne faremmo volentieri a meno. Di quelli, cioè, che pontificano moralisticamente sul mondo ma non mettono mai in gioco se stessi – e “se stessi”, intendo esattamente le proprie ossa, il proprio naso, la propria faccia, il proprio corpo. È stato l’uomo più denunciato d’Italia, Pasolini, e ha racimolato le sue condanne – anche di rapina a mano armata, fu accusato, fatta con una pistola dai “proiettili d’oro”, una farsa.
Alla prima nazionale di Mamma Roma, novembre del 1962, nel foyer del cinema Adriano, a Roma, apostrofato da un gruppo di giovani squadristi, li affronta a pugni, scatenando una rissa – non si tirava indietro: il corpo è la misura del proprio scandalo. E non perché si è omosessuali, o almeno: non solo. Ma perché è la cosa più sacra che abbiamo – o tale dovremmo considerarla. Oggi, le risse sono solo virtuali. Lui è stato un martire – proprio nel senso più cristiano del termine.
Pasolini non ha eredi, non ha neppure lasciti. Perché il mondo in cui lui ha vissuto e poetato, scritto e amato non esiste più. E non solo il “mondo delle lucciole”, quella società povera e contadina, legata alla comunità del lavoro della terra, spazzata via prima dallo sviluppo industriale e dal consumismo di massa, e poi dalla globalizzazione. Non esiste più il mondo politico in cui lui ha vissuto e poetato, scritto e amato, quello della Democrazia cristiana e del Partito comunista. Quello delle ideologie. Quello delle chiese.
Pasolini non è morto all’idroscalo di Ostia, ucciso dal “Rana” – è morto perché nessuno potrebbe più scrivere oggi: «Io so i nomi dei responsabili. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi» . È morto perché nessuno potrebbe più girare un film come Salò o le 120 giornate di Sodoma – a chi potrebbe venire in mente una “dittatura sessuale”, in cui si applicano “prove” orribili, quando al massimo le prove che riusciamo a sostenere con lo sguardo e l’immaginazione sono quelle dell’Isola dei Famosi? Quel mondo bigotto, reazionario, conservatore, sessuofobico, stragista, in cui mestavano agenzie straniere e bombaroli nostrali – è morto. Era un mondo con un piede ancora tutto dentro la tragedia del fascismo – quello storico, quello vero.
Il processo alla Democrazia cristiana – quello che voleva fare Pasolini – lo fecero poi le Brigate rosse, quando sequestrarono Moro per 55 giorni. Anzi, lo fece Moro stesso, nelle sue lettere, al suo partito – quando capì che lo avrebbero abbandonato al suo destino, quando lo dichiararono pazzo. E la tragedia divenne grottesca, con un esito sanguinario. E il Partito comunista - quello che lo aveva espulso nel ’ 49 per “deviazione ideologica”, quando era scoppiato il primo scandalo per una breve avventura, e a cui lui rispose parlando di “disumanità” (e anche di cretineria) - restò sotto le macerie del crollo del muro di Berlino.
Sarà poi la magistratura, con Tangentopoli, a porre fine al “ridicolo decennio”, proprio quella magistratura che Pasolini odiava – e ne aveva ben donde, non solo perché simbolo proprio del “potere” ma perché si accaniva nel perseguitarlo: il procuratore Di Gennaro, al processo contro La ricotta per “vilipendio alla religione di Stato”, con sprezzo del ridicolo porterà in aula una moviola e fotogramma per fotogramma indicherà le ragioni dell’accusa («un cavallo di Troia, nella città di Dio» – 4 mesi di condanna). Non amavamo Pasolini, noi ragazzi del ’ 68 – e non per quella sua poesia scema.
Non lo amavamo per quel collocare la purezza proletaria in un mondo distante e opposto all’industria, alla produzione, alle merci. La purezza linguistica anche – Ragazzi di vita è uno degli straordinari tentativi (insieme al Gadda del Pasticciaccio e poche altre cose) di ridare vita a un italiano che usciva dai dialetti ma trovava il suo standard nella “parola televisiva”. Pasolini disse una volta che l’unica parola che in quel momento si capiva da Milano a Palermo era: “frigorifero”, una parola tecnica – una merce, si potrebbe aggiungere. Ma per noi, ragazzi del ’ 68, questo irrompere del desiderio operaio di comprare cose (l’automobile, la lavatrice, il frigorifero, la casa) era proprio il segno che si andava spostando la distribuzione della ricchezza. Il proletariato non ha una sacralità - è una rude razza pagana.
Eppure, quella frenesia espressiva, quella capacità di toccare registri dma, dal romanzo all’articolo di quotidiano, dalla poesia al saggio), e ogni volta sorprenderci, ogni volta spiazzarci, ogni volta incuriosirci, per quelle sue parole che ti scartavetravano dentro, quella bava corrosiva del conformismo che si lasciava dietro – oh sì, come ci mancano.
È morto un poeta – disse Moravia al suo funerale. Il poeta dei margini, dei lembi, degli estremi, dei dialetti – quello friulano e quello romanesco. Il poeta delle periferie, di quello che preferiamo non vedere, di ciò che è “clandestino” nella nostra società, di ciò che ci arriva come eco di una qualche cronaca ma non mai è al centro dei nostri pensieri, delle nostre preoccupazioni, delle nostre ossessioni, dei nostri affanni. Della nostra democrazia. Quelle periferie di Pasolini non ci sono più – un mondo scomparso con lui. Ma altre periferie, altri margini, altri lembi di società sono fra noi. E ci manca il poeta che li racconti.
Nicotera, 3 marzo 2022.