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Oggi ricorre “l’anniversario” dell’assalto a Capitol Hill. Una folla robusta e variopinta, aggressiva e inferocita, da ogni angolo d’America – alcuni avevano viaggiato tutta la notte – si raccolse in un giardino davanti la Casa Bianca, dove Trump tenne un comizio aizzando i convenuti perché non riconoscessero il risultato elettorale che aveva visto vincere il democratico Biden – “the Big Lie”, la grande bugia che aveva rubato la vittoria a lui e a loro, suoi sostenitori, e che aveva provato a far negare anche ai governatori “amici” senza successo – e quindi ne impedissero la proclamazione.
Come a un segnale convenuto, quella folla si precipitò per le scale del grande palazzo bianco, quasi senza trovare resistenza, e riuscì a entrare. La potremmo definire “la rivoluzione mancata” – nell’assalto bolscevico al Palazzo d’Inverno del ’ 17 ci furono meno morti – purché non si dia al termine “rivoluzione” il significato progressivo di “profondo cambiamento” che ha assunto nella storia, ma quello proprio, originario, di “sottosopra”. A vent’anni dagli attentati di Bin Laden e al Qaeda alle Torri gemelle – che sconvolse l’America e il mondo intero – un altro evento inatteso e “inimmaginabile” accadeva negli Stati uniti, che di questo mondo intero ne è il cuore. Non eravamo alle Cortes spagnole, e non c’era il colonnello Tejero – eravamo nella più grande e solida democrazia del mondo.
Ma Trump mostrava fino in fondo la sua natura “capricciosa e violenta”, che restava dentro le regole istituzionali finché poteva usarle e maltrattarle e finché potevano volgere a suo favore, pronto a mettersene fuori e a attaccarle se le cose non si svolgevano come a lui garbava; ma nello stesso tempo dal ventre dell’America emergeva una “società capricciosa e violenta” di cui era impossibile quantificare la consistenza, il radicamento, la rappresentanza, ma che era pronta al “tutto per tutto”, proprio come in una rivoluzione. Proprio come quando avevano gettato le balle del tè inglese nella baia di Boston ( a pensarci, un evento anche molto meno traumatico), e da lì era cominciata la Guerra d’Indipendenza.
L’America, il cuore del mondo intero, aveva subito nel settembre 2001 un attacco dall’esterno come mai era accaduto nella sua storia e ora, a vent’anni di distanza, subiva un attacco dall’interno. Dal punto di vista storico – non poteva non esserci relazione tra le due cose. Un groviglio che andava snodato e capito. Se il primo evento aveva “compattato” gli americani e il mondo occidentale di fronte una minaccia armata da fuori, questo secondo mostrava quanto divisi e l’un contro l’altro armati stessero diventando gli americani, dentro.
Eravamo stati, anche se solo per poco, giusto il tempo di digerire le immagini strazianti degli uomini che si lanciavano dai grattacieli in fiamme, «tutti americani» – ricordate l’editoriale di Ferruccio de Bortoli del Corriere della Sera? – e ora non sapevamo che dire. Oriana Fallaci aveva fatto suo lo “scontro di civiltà” del professor Huntington, tracciando una linea netta e irredimibile tra l’Occidente e l’Islam – e ora lo “scontro di civiltà” si spostava tutto dentro. Tra bianchi e bianchi, protestanti e protestanti, wasp e wasp. Dov’era, ora, la linea netta e irredimibile? Nei giorni successivi, ci spiegarono come potevano stare le cose, attraverso le biografie di chi poi ci era morto o di chi aveva colpito l’immaginario globale – come lo “sciamano” Jake Angeli e altre folkoristiche figure: “dietro” c’era QAnon, e una rete di simili strutture, che aveva diffuso e distillato teorie del complotto su una élite, pedofila e sanguinaria, che governava i destini del mondo e andava abbattuta. Era un’ideologia e una fede, e aveva il vantaggio dell’una e dell’altra di non necessitare di “prove” e, una volta abbracciate, si era pronti a diventare “martiri”, per esse. Proprio come gli shahid islamici, pronti a suicidarsi, a immolarsi, in attesa della ricompensa nell’Aldilà.
Ma come la “ricostruzione storica” di al Qaeda e della vita di Bin Laden – proveniente da una ricca famiglia saudita – con la guerra in Afghanistan, e quella eterogenesi dei fini che aveva portato l’America a finanziare e armare i mujaheddin contro i russi per poi ritrovarseli contro di sé, spiegava relativamente cosa fosse accaduto dentro il mondo musulmano, come fosse emerso il fondamentalismo che aveva trasformato ovunque le madrassa e le moschee in luoghi dell’odio, così i “misteri” di QAnon, non ci dicevano proprio esattamente cosa stesse accadendo dentro la società americana, dentro l’Occidente. Era un teoria del complotto che smontava una teoria del complotto – ma non poteva bastare. Paradossalmente, c’erano più “motivazioni” dietro l’attacco alle Torri gemelle – l’imperialismo predatorio degli Usa, il ruolo di gendarme nel mondo, l’appoggio a regimi totalitari e repressivi – che nell’assalto a Capitol Hill: una élite pedofila e sanguinaria governava la Terra?
Quello di Capitol Hill era un putsch, meno marziale e meno sanguinoso del putsch di Monaco di Hitler, ma dalla stessa logica – anche se ora gli ambienti sociali delle birrerie erano stati sostituiti dagli ambienti virtuali di internet: prendere con un colpo di mano il cuore delle istituzioni. Ma come quello poteva aver avuto luogo solo godendo di complicità istituzionali e come quello poteva dirci solo che la frattura dentro l’America era diventata senza soluzione politica: si andava verso una nuova guerra civile?
A novembre, ci saranno le elezioni di midterm negli Stati uniti – i cittadini americani sono chiamati alle urne per scegliere tutti i 435 membri della Camera e un terzo dei membri del Senato, oltre a 36 governatori e molti sindaci delle città. Le elezioni di midterm sono in genere una “verifica” del gradimento della presidenza e per Biden rappresentano quindi un appuntamento importante in vista delle presidenziali del 2024. Ma Trump non molla. E il trumpismo è ancora vivo. Stando a un sondaggio del «Washington Post», per il 60 percento degli americani Trump ha “grande” o “buona” parte di colpa nell’assalto a Capitol Hill, ma ha solo “qualche responsabilità” o “nessuna” per il 72 percento dei repubblicani e per l’ 83 percento dei suoi elettori: i suoi, insomma, lo hanno “perdonato”.
Proprio oggi Trump avrebbe dovuto tenere un discorso – per “l’anniversario” del Grande Assalto – poi ha declinato, ma non del tutto: lo farà il 15 in Arizona. Sinora è sempre stato ambiguo, come lo fu quel giorno. Però, non ha mai smesso di martellare sulla Grande Bugia che gli ha rubato le elezioni e ha sempre attaccato la Commissione d’inchiesta che si occupa dei fatti del 6 gennaio: per Trump, la folla fu infiltrata. Per Trump l’assalto a Capitol Hill può diventare occasione di una narrazione “epica”. Sia Biden che i vertici del Partito repubblicano sembrano non voler dare troppo peso ancora a Trump ( benché invece nella base del partito conti ancora molti espliciti sostenitori) – limitandosi a tenerlo “a bada”. Che non è propriamente una cosa facile, con Trump. La frattura dentro la società americana si va dilatando. E forse ora è davvero il tempo di “essere tutti americani”.