Possiamo iniziare il conto alla rovescia: domani in Francia inizierà l’ottava edizione dei mondiali di calcio femminile con protagonista anche la nostra nazionale e allo stesso tempo potremmo assistere a una serie di “bordate” contro i pregiudizi nei confronti delle donne che praticano questo sport. Era ora. Sopratutto per l’Italia dove - a differenza di altri Paesi il calcio femminile è considerato una disciplina e uno spettacolo di serie b. Ma così non è. E le atlete capeggiate dalla capitana Sara Gama lo sapranno dimostrare. Certo, le prestazioni sono diverse da quelle del calcio maschile che da anni conquista gli stadi di tutto il mondo. Ma non è certo una questione di abilità, né di capacità. Il calcio femminile molto più giovane e con meno mezzi economici sconta la breve storia e i pochi soldi, ma qualcosa si sta muovendo e questi mondiali lo dimostreranno.

I NUMERI, LE SQUADRE

Il primo mondiale di calcio femminile risale al 1991. Quest’anno, fino al 7 luglio, partecipano 24 nazionali per un totale di 52 partire. La squadra favorita è la nazionale degli Stati Uniti d’America che vanta già tre trofei, a seguire la Germania che tenta il tris e il Giappone, subito dopo le padrone di casa. L’Italia che arriva dopo l’ottima figura della qualificazione trova nel suo girone squadre alla sua portata, l’Australia contro cui è la partita del debutto, poi Giamaica e Brasile. Subito una curiosità: la squadra giamaicana partecipa al mondiale grazie al crowfounding lanciato dalla figlia di Bob Marley, Cedella. La finale dei mondiali il 7 luglio, a Lione.

Ricci fitti e ribelli, Sara Gama è la capitana della squadra italiana. Bandiera di uno sport che si vuole affermare, è anche l’esempio di una nuova generazione di italiani: madre triestina, padre congolese, Sara ha tutta la determinazione che serve. Per vincere e per riscattare le sue sorelle calciatrici vittime di pregiudizi. Durante l’anno gioca nella Juventus, indossa sempre la fascia da capitana. E vince. «Se le bambine ci vedono in tv - ha detto in una intervista al Corriere della sera - possono imitarci. Per loro siamo pioniere». Forse saranno anche qualcosa di più. Chissà. Basterebbe arrivare in finale. Anche perché la squadra allenata da Milena Bertolini si è dimostrata molto compatta, capace di fare un buon gioco, con grinta. Bertolini, insieme a Carolina Morace, è una delle due donne che in Italia possono allenare anche i club maschili di serie A. È una abituata a combattere, a non farsi lasciar dissuadere dagli ostacoli. Ha tutte le carte in regola per giocarsi il mondiale senza senso di inferiorità, nonostante i numeri e le chance delle squadre più importanti.

In Italia ci sono 23.903 calciatrici tesserate, 2664 tra i 10 e i 12 anni. Numeri ancora molto bassi se paragonati agli Stati Uniti o alla Germania. Tra Usa e Canada, tenendo conto della popolazione, parliamo comunque di due milioni e mezzo di calciatrici, la metà di quelle che giocano in tutto il mondo. In Germania il calcio femminile è considerato “cool” e fa gola anche agli sponsor. In Italia siamo poco più degli albori. Il calcio femminile non ha una organizzazione autonoma - fattore che pesa moltissimo - e le calciatrici non sono tesserate come professioniste. Ma le cose stanno cambiando da quando le grandi squadre maschili sono state obbligate a investire anche nel settore del calcio femminile. Lo ha fatto la Juve che ha vinto due campionati di seguito, il Milan, la Roma. Una calciatrice guadagna mediamente 30 mila euro lordi l’anno, niente di paragonabile con quello che accade in ambito maschile. Ma l’entusiasmo cresce e il primo obiettivo è quello del “professionismo”, anche se non è un passaggio facile da raggiungere, almeno in termini concreti. «Basterebbe - ha spiegato Sara Gama al Corriere - una delibera del Consiglio della Fgci. Qualche anno fa, quando il campionato era giocato da società dilettantistiche, avrebbe voluto dire ammazzare il movimento. Oggi, con l’entrata dei club maschili di serie A, la realtà del calcio donne è diversa...». Servono sgravi, spiega la capitana. Servono investimenti. Investimenti soprattutto dal punto di vista culturale, dell’educazione. Perché il calcio femminile - è questa la vera questione - più di ogni altro sport subisce pesanti pregiudizi, ma proprio per questo motivo può essere il grimaldello per sconfiggerli. A partire da loro, dalle calciatrici. Dalle loro gambe, dalla loro testa, dal desiderio che le spinge a fare qualcosa che era, e in parte lo è ancora, considerata roba da maschi.

Nell’immaginario della cultura maschilista il calcio ha un ruolo fondamentale. Non il calcio in sé, chiaro. Ma il calcio nella divisione dei ruoli tra uomo e donna. “L’uomo guarda le partite, la donna ama truccarsi. L’uomo beve la birra mentre assiste ai campionati del mondo, la donna si occupa della casa. Lui comanda, lei pensa alla famiglia”. Non è più così nella realtà, i ruoli si sono mescolati. Ma dal punto di vista simbolico questa dicotomia sopravvive. L’ideale di bellezza è connesso a questo immaginario. Dal tennis al nuoto, passando per le discipline dell’atletica leggera, lo sport ha ribaltato questi luoghi comuni, imponendo nuovi canoni di bellezza femminile. Ma il calcio più degli altri vive dentro i pregiudizi che hanno storicamente segnato la costruzione sociale che in parte ancora oggi viviamo. Fino a qualche anno fa chi giocava a calcio era considerata “un maschiaccio”, una traditrice del proprio genere. E in fondo, se si considera il tradimento come una costruzione di libertà contro gli stereotipi, questo è vero, ma assume una valenza più che positiva. Il calcio femminile diventa così il terreno su cui sperimentare e agire libertà femminile. Uno spazio inedito in cui modificare immaginario, simbolico e realtà. Perché il calcio, che smuove tantissimi sentimenti, dal tifo al riscatto personale, dal piacere della vittoria all’accettazione della sconfitta, questa volta vede protagoniste giovani donne alle prese con la sfida più importante: l’affermazione di sé non più affidata all’immagine che arriva da millenni di storia, ma al proprio desiderio e divertimento. Il piacere di un dribbling, la libertà che si prova giocando all’aria aperta sotto il sole o la pioggia, quel passaggio, quella vittoria, l’amarezza per essere state battute, l’odore del prato calpestato con i tacchetti delle scarpette da calcio, sono diventati “mondiali” anche per le donne. Non si può pensare che questo non abbia delle conseguenze per le protagoniste e per tutti. Come dice la pubblicità della Nike dedicata al campionato mondiale francese: «Non rinunciare ai tuoi sogni, cambia il mondo». Una esagerazione se rivolto al calcio femminile? Sembra proprio di no.