Lo sguardo perso, a fissare un punto lì nel vuoto, le guance gonfie e rubiconde da vecchio bevitore, la bocca che si contrae in una smorfia, l'aria del pugile suonato. Appena partono le note dell'Inno di Battaglia della Repubblica, celeberrimo canto patriottico-ecclesiastico americano (Glory, glory alleluja), George W. Bush si irrigidisce e accenna qualche passo di danza; la mano destra stringe quella della moglie Laura, la sinistra è avvinghiata a quella della first lady Michelle Obama e lui le tira in alto a turno quasi a portarle in trionfo, ridendo come un bambino all'ultimo giorno di scuola. Laura, che conosce i suoi polli, non lo guarda nemmeno e continua a cantare, Michelle è davvero imbarazzata e accenna un ghigno, alla fine della catena Barack battezza la scena con un sorriso rassegnato. Siamo a Dallas dove le più alte cariche dello Stato celebrano i funerali dei cinque agenti uccisi il 7 luglio da Micah Xavier Johnson, lo squilibrato ex riservista dell'esercito che voleva "vendicare" le vittime afroamericane della polizia.  In una settimana difficilissima per l'America tornata a rivedere le streghe del conflitto razziale con Obama che ha lanciato vibranti appelli alla coesione civile e alla tolleranza, il comportamento decisamente sopra le righe di Bush sta suscitando un'ondata di sdegno e indignazione. Mancanza di rispetto per le vittime del cecchino di Dallas e dei loro familiari in un momento solenne come una cerimonia funebre, senz'altro. Poi non è fondamentale sapere se Bush abbia o no offeso i protocolli istituzionali o il decoro di non si sa cosa.            Chi conosce la biografia dell'ex presidente sa che la gaffe di Dallas è solamente l'ultimo capitolo in ordine di tempo di una saga infinita, quasi un genere letterario nobiltato da un nome tutto suo i "bushismi". L'infanzia difficile in una company town del Texas dove la famiglia si era trasferita dal Connecticut inseguendo il businnes del petrolio, la solitudine, la sorellina robin uccisa dalla leucemia, i problemi di alcolismo che lo hanno perseguitato fino a oltre 40 anni quando viene redento dal predicatore evangelico Bill Graham. Da quel momento l'irresistibile ascesa, ma sempre sotto tutela della famiglia: presidente di una squadra di baseball, governatore del Texas, presidente degli Stati Uniti. Chi non ricorda lo sguardo smarrito nell'immensità del cosmo di fronte a una scolaresca di Miami la mattina dell'11 settembre 2001 quando il capo dello staff presidenziale Andy Card gli si avvicina sussurrandogli in un orecchio: "Mr president we are under attack" ? Lui che era stato eletto da nemmeno dieci mesi e che aveva pianificato la sua politica all'insegna dell'isolazionismo non sapendo neanche riconoscere l'Afghanistan sulla carta geograficae che confondeva i talebani con un gruppo rock, viene catapultato nella temperie del conflitto di civiltà, telecomandato dal vicepresidente Cheney e da tutta la tribù di consiglieri, esperti, intellettuali neocons e amici di papà George H. che attraverso la sua presidenza provano a realizzare il vecchio sogno del Grande Medio Oriente e della democrazia d'esportazione. A suon di bombe però, sospinti dagli intressi dell'apparato bellico-industriale che nella guerra contro i talebani in Afghanistan e soprattutto contro l'Iraq di Saddam Hussein videro una lauta fonte di profitti. Negli otto anni in cui è stato alla Casa Bianca George W. ha senza dubbio cambiato la Storia anche se lo ha fatto a sua insaputa, un po' Forrest Gump un po' Oltre il giardino, come se dietro quell'aria perennemente imbambolata e quel goffo accento texano brillasse la consapevolezza di appartenere a un destino più grande e più tragico di lui, di esserne un ostaggio. Forse la danza grottesca ai funerali di Dallas non è altro che l'ultimo liberatorio sberleffo di George W. Bush a un mondo che lo ha usato, lo ha detestato, ma non lo ha mai capito. Come quel giornalista che un giorno gli ha chiesto quale fosse il suo diploma ricevendo la seguente risposta: "Io? Sono laureato in vita"