Il referendum del 23 giugno segna un’appuntamento con la storia per la Gran Bretagna e per l’intera Europa. Finora nessun Paese ha lasciato il sistema di integrazione europeo, conquistato con fatica dopo decenni di lotte. Unica eccezione la Groellandia, che scelse di uscire dalla Ue nel 1982.A Londra si respira un’aria rarefatta, tesa, agitata. I sondaggi danno un quadro assolutamente incerto con il voto essenzialmente spaccato fra le due fazioni: le ultime rilevazioni danno la Brexit al 53%. Per la permanenza nell’Unione ci sono la grandi città, i giovani, la finanza e le imprese, la comunità scientifica, il mondo della cultura, la banca d’Inghilterra e i partiti nazionali e regionali. Per la Brexit invece sono schierati il partito di Farage, metà dei conservatori, la destra nazionalista nostalgica dell’Impero, le zone rurali, ma anche i pensionati e i ceti urbani impoveriti dall’austerity. L’incertezza fa tremare i mercati: la banca di Inghilterra ha detto che c’è un pericolo recessione dietro l’angolo, 4 milioni di posti di lavoro collegati con l’export europeo sono a rischio, mentre il mondo della City già si prepara a trasferirsi in massa in Irlanda se tutto dovesse andare male. I giovani temono per il loro futuro e maledicono la scelta di Cameron che per vincere le elezioni del 2015 promise agli euroscettici del suo partito un referendum sull’Europa. La furbizia del premier conservatore potrebbe rivoltarsi contro di lui dato che metà del suo partito si è schierato - a sorpresa - a favore della Brexit e Boris Johnson, ex sindaco di Londra, sta utilizzando questo tema per lanciare un’opa sulla leadership conservatrice. L’elettorato conservatore infatti non ha giudicato soddisfacente la mediazione raggiunta dal premier inglese con Bruxelles sui tagli al welfare per i migranti che adesso possono accedere ai benefit di protezione sociale dopo quattro anni di permanenza. E sì, perché in realtá il vero tema sul tavolo non è la permanenza nell’Ue quanto l’immigrazione. Gli inglesi, stanchi di vedere Londra invasa da italiani, spagnoli, polacchi, portoghesi si pronunceranno essenzialmente su questo punto il 23 giugno. Il voto sulla Brexit si è dunque trasformato in un voto sui migranti europei, un voto sulla globalizzazione e la libera circolazione delle persone. Il problema è che se anche dovesse vincere il sì all’uscita è molto difficile che cambi qualcosa su questo fronte: il Regno Unito non può permettersi di uscire dal mercato unico europeo di cui la libera circolazione dei lavoratori è un pilastro fondamentale e irrinunciabile. Il rischio è che Londra esca dei processi decisionali dell’Europa politica senza poter più incidere nelle scelte di Bruxelles sul modello della Norvegia o della Svizzera.Un’altra incognita, se dovessero vincere gli euroscettici, è quanto tempo sarebbe necessario per completare il processo di uscita. Difficile calcolarlo dato che non ci sono precedenti a riguardo, ma gli esperti dicono che ci vorrebbero almeno due anni per negoziare un accordo con i 27 Paesi Ue. Anche se è ragionevole pensare che ci si impieghi di più: del resto ci sono voluti decenni per costruire il progetto europeo, ce ne vorranno altrettanti per distruggerlo?C’è anche la questione su chi ha diritto a partecipare al referendum: gli europei residenti con l’eccezione di Malta, Cipro e Irlanda (ex colonie) non possono votare mentre hanno diritto di voto i cittadini provenienti da nazioni del Commonwealth. Il Regno Unito rimarrebbe parte di altre organizzazioni internazionali di retaggio post coloniale come appunto il Commonwealth, l’uscita dall’Ue non bloccherebbe certo le migrazioni da quei Paesi né segnerebbe un ritorno alla piena sovranità nazionale come invece sognano i nostalgici nazionalisti che vorrebbero Londra in dorato isolamento dal sapore nostalgico. La Gran Bretagna non è più un’isola isolata dal mondo, purtroppo per loro. La globalizzazione con la sua forza e i suoi problemi non è arginabile.La paura per la Brexit preoccupa in particolar modo Londra, una città che si basa sulla finanza e sugli scambi internazionali, che potrebbe subire un duro colpo. Il sindaco laburista neoeletto Khan è talmente preoccupato che ha persino accettato di fare campagna con Cameron, suo acerrimo nemico, per dare un segnale di unitá nazionale. Stessa aria si respira in Scozia con lo Scottish National Party che l’anno scorso combatteva per lasciare la Gran Bretagna e che oggi non vuole lasciare l’Europa. C’è anche chi sostiene che la Brexit possa riaprire la questione scozzese con Nicola Sturgeon pronta a chiedere un nuovo referendum in caso di uscita. Gli scozzesi temono un maggiore accentramento dei poteri nelle mani del governo di Londra. Dello stesso avviso sono anche i gallesi. Il premier del Galles, Carwyn Jones ha detto chiaramente che ci saranno conseguenze se i gallesi voteranno per rimanere mentre il resto del Gran Bretagna si schiererà per l’uscita. Il problema è che il computo dei voti si fará su base nazionale, non rispettando le realtà nazionali del Regno Unito.Secondo i sondaggi lo zoccolo duro a favore della Brexit rimangono le campagne inglesi e le realtá periferiche. Molti, anche a sinistra, intendono il referendum come un voto di protesta, anti-sistema e anti-establishment. Un voto contro l’economia basata su finanza e austerity che ha distrutto il tessuto industriale inglese e impoverito il ceto medio. Anche se gli economisti di tutti gli orientamenti avvertono che abbandonare l’integrazione comunitaria peggiorerebbe la situazione, riducendo gli investimenti e la crescita. Sarebbe dunque una coltellata autoinflitta. Dello stesso avviso la comunitá scientifica, in un paese leader mondiale della ricerca universitaria.L’unica speranza per rimanere in Ue è che lo spirito tendenzialmente conservatore, avverso ai cambiamenti, prevalga sulla rabbia e il malessere. Ma anche se dovesse vincere il buon senso, un messaggio chiaro arriverebbe a Bruxelles: i cittadini europei chiedono una svolta alle istituzioni comunitarie.