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Brazil's former President Jair Bolsonaro stands at the entrance of his home where he is under house arrest in Brasilia, Brazil, Thursday, Sept. 11, 2025. (AP Photo/Luis Nova)
Jair Bolsonaro è un Trump che non ce l’ha fatta, un cosplayer con tante ambizioni e poche qualità, un epigono destinato al fallimento. La scena che lo consegna alla storia si consuma a Brasilia, nel palazzo di vetro e cemento disegnato dall’architetto Oscar Niemeyer, sede della Corte suprema dove gli alti giudici lo hanno condannato a ventisette anni e tre mesi di carcere per tentativo di colpo di Stato.
L’8 gennaio 2023, migliaia di sostenitori di Bolsonaro prendono d’assalto i principali palazzi del governo brasiliano: il Congresso Nazionale, il Palazzo del Planalto e la stessa Corte Suprema. Convinti che le elezioni del 2022 fossero state truccate e rifiutando il ritorno al potere di Luiz Inácio Lula da Silva, i manifestanti sfondano le barriere di sicurezza, occupano gli edifici causando ingenti danni prima di essere fermati dall’intervento della polizia. Praticamente un copia-incolla dell’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2001 da parte dei seguaci di Donald Trump, ma con esiti giudiziari opposti.
«Mi restano tre opzioni, la prigione, la morte o la vittoria», ripeteva l’ex presidente in attesa del verdetto. Ora la realtà lo costringe alla più malinconica delle conseguenze: la prigionia. Una caduta fragorosa e drammatica che forse nemmeno il diretto interessato credeva possibile.
Il processo si è aperto a inizio settembre, sotto la presidenza del giudice Alexandre de Moraes, figura centrale della giustizia brasiliana, uomo dal fisico imponente e con la fama di inflessibile. È lui a ricostruire, con pazienza chirurgica, i mesi in cui Bolsonaro orchestra dall’alto la cosiddetta operazione “Pugnale verde e giallo”: un piano per instaurare lo stato d’assedio, invalidare le elezioni vinte da Luiz Inácio Lula da Silva e persino attentare alla vita del neopresidente.
La Corte suprema giudica che Bolsonaro non sia stato un semplice agitatore, ma il vertice di una struttura criminale che voleva sovvertire l’esito elettorale confidando sulla complicità di parte dell’esercito. Con quattro voti contro uno l’alta Corte ha sancito la colpevolezza di Bolsonaro e di sette dei suoi principali collaboratori, tra cui generali e ministri. Le pene variano da due ai ventisei anni di carcere. L’unica voce fuori dal coro è stata quella del giudice Luiz Fux, che in una lunga e arringa ha descritto l’ex presidente come un fanfarone inconsapevole, responsabile di «sbruffonate» più che di un tentato golpe. L’argomentazione però non ha convinto i suoi colleghi.
Il peso simbolico della decisione è enorme. Come spiega la giudice Carmen Lúcia: «Questa azione penale è un incontro del Brasile con il suo passato, il suo presente e il suo futuro». Per un Paese che ha conosciuto vent’anni di dittatura militare, e che ha lasciato i generali impuniti, la condanna di sei ufficiali in servizio rappresenta un punto di non ritorno. È la prova che l’uniforme non è più un lasciapassare per restare al di sopra della legge.
Secondo il sistema giudiziario brasiliano l’imputazione di un ex presidente per reato di eversione non passa dai tribunali ordinari, ma direttamente dal Supremo Tribunal Federal, ovvero la Corte suprema. Non fu il caso di Lula, che venne condannato nel 2018 da tribunale federale di Curitiba perché accusato di reati “ordinari” (corruzione e riciclaggio) per poi venire scagionato nel 2021.
Si è trattato di un processo eccezionale, trasmesso in diretta, seguito dai brasiliani come una serie televisiva o una partita della nazionale, dove ogni giudice ha motivato pubblicamente il proprio voto con ore e ore di arringhe. Il verdetto non chiude definitivamente la vicenda. L’ex presidente è ora agli arresti domiciliari, con un braccialetto elettronico che ne monitora i movimenti e con il divieto assoluto di accedere ai social network. Restano però margini minimi di speranza, più formali che sostanziali, destinati a contestare i dettagli tecnici e non la sostanza della condanna, come il ricorso interno alla stessa Corte.
Ci sarebbe poi la revisione del processo ma ci vorrebbero nuovi elementi probatori. E infine i ricorsi alla Corte Interamericana dei Diritti Umani e alle Nazioni Unite: l’iter dovrebbe durare circa un anno e mezzo e se la difesa non otterrà riscontri per Bolsonaro si apriranno le porte del carcere.
Ma mentre un Brasile festeggia, un altro rumoreggia. Nelle strade di Rio si intonano sambas di scherno, si condividono fotomontaggi dell’ex presidente dietro le sbarre, si rievocano i morti della pandemia, imputandoli alle sue scelte apertamente non vax. Dall’altra parte, la destra estrema urla alla persecuzione, invoca amnistie parlamentari, immagina una grazia presidenziale futura o persino interventi militari stranieri. I figli di Bolsonaro, rifugiati negli Stati Uniti, giurano che «il gioco è appena cominciato». Magari confidando nell’intervento del padrino Donald Trump che aveva minacciato pesanti ripercussioni in caso di condanna. In tal senso il segretario di Stato americano, Marco Rubio, ha ringhiato: «Agiremo di conseguenza dopo questa caccia alle streghe». Rapida e scontata la risposta di Lula: «Non ci facciamo intimidire dalle minacce».