Nelle vicissitudini che riguardano il Campidoglio, sempre più simili a una soap opera qualsiasi che alla serie tv House of cards, c’è una storia nella storia che quasi dispiace ( umanamente). E’ quella che riguarda l’ascesa e la caduta di Paolo Berdini, l’assessore all’urbanistica oggi di fatto commissariato e in bilico. Il suo ingresso in giunta sembrava una di quelle mosse che avrebbero reso l’amministrazione di Virginia Raggi vincente e capace di dare una svolta alla città. Intellettuale di sinistra, Berdini si è sempre schierato contro il cemento e come diversi urbanisti della sua generazione ha cercato di conciliare impegno politico e impegno culturale.

Ma il ruolo di assessore in una giunta grillina non è andato come lui sperava. Da subito messo da parte per le decisioni più importanti, si è trovato in poco tempo a stare in un angolo. Intorno a lui cadevano le teste, ma lui - anche se dimezzato resisteva. Fino a qualche giorno fa, quando una intervista strappatagli senza che lui fosse consapevole, lo ha messo nei guai con la sindaca da lui definita «impreparata» e «circondata da una banda». Si può discutere, giustamente, quanto questo modo di fare giornalismo sia informazione o altro. Ma tornando a Berdini la vera sorpresa non è stata tanto la durezza delle parole carpite dal giornalista della Stampa e neanche la sua timida difesa e le scuse prolungate come se non volesse mollare la poltrona.

Ciò che colpisce, prima e dopo, nell’atteggiamento di Berdini è il fatto che mai e poi mai ha tentato di aprire un conflitto politico con Raggi. Avrebbe potuto, soprattutto prima della registrazione fatta a sua insaputa. Invece niente. Continua a difendersi e a chiedere di restare. Anche ieri, in una lettera al Fatto quotidiano, ha racconta la sua “verità”. Niente di politico, di strategico o tattico, ma la solita giustificazione del “complotto”: lo vorrebbero fare fuori perché contrario al nuovo stadio della Roma. Niente che sia un elemento di discussione o di sfida su come si debba amministrare una città come Roma e come si debba garantire a tutti di esprimere la propria opinione. Perché se è vero che lui è stato ingenuo a rilasciare quelle dichiarazioni, pensando che restassero anonime, è anche vero che forse il clima all’interno della giunta cinque stelle non favorisce il confronto tra diverse posizioni in maniera chiara.

Ma davanti a tutto ciò che ci voleva ad avere un singulto di orgoglio e a dimettersi?

Insomma, un po’ di nostalgia rispetto al passato viene, quando gli intellettuali litigavano con i politici, i politici con gli intellettuali. La storia da cui proviene Berdini è piena di esempi. Elio Vittorini, quello che in Conversazione in Sicilia racconta l’antifascismo e il saper dire di no, non ha timore di litigare con una figura autoritaria come Palmiro Togliatti. Vittorini, con la rivista il Politecnico ( 1945- 1947), pensa di dover rinnovare la cultura italiana, rendendola più moderna e aperta, per esempio, ai tanto odiati Stati Uniti. Togliatti si oppone, pensa che la cultura debba essere al servizio della politica. Vittorini pensa che l’intellettuale non debba essere il pifferaio della rivoluzione. I due si scrivono pubblicamente, litigano. La rivista viene chiusa e dopo qualche anno Vittorini lascia il Pci. Ma la questione era politico- culturale e quello scontro, vissuto in prima persona dai due protagonisti, è ancora motivo di studio nelle università italiane. Lo scontro tra Berdini e Raggi forse sarà analizzato, ma solo per raccontare ai posteri la crisi drammatica della politica.