A Roma, a poche ore di treno da Bari, proprio ieri è toccato all’avvocatura esprimersi sulla riforma del Csm. Su una riforma che, per inciso, contiene una parziale ma pur significativa novità in materia di Consigli giudiziari: stabilisce che in queste articolazioni locali dell’autogoverno, la magistratura non può essere sola, in alcun caso, inclusi quelli in cui si decide sulla professionalità di un giudice. Nei pareri (da inviare al Csm) approvati dai Consigli giudiziari sugli scatti di carriera, avvocati e professori (cioè i “laici”) devono esserci sempre, dice una volta per tutte l’articolo 3 comma 1 lettera a) del ddl Bonafede. In casi del genere, c’è il diritto di “tribuna”, anche se non quello di voto: comunque un passo avanti. Bene. Anche se dal punto di vista del Cnf e delle altre rappresentanze forensi il diritto di voto andrebbe sempre previsto. Ma sentite cosa avviene nell’altro “polo” della ormai annosa questione: a Bari, oggi, i tre componenti avvocati e la rappresentante dell’accademia non parteciperanno, per protesta, alla prevista riunione del Consiglio giudiziario. Motivo: la maggioranza togata metterà ai voti, e approverà in modo “bulgaro”, una modifica del regolamento con cui si elimina proprio quel “diritto di tribuna” che a Bari, come in altri 14 distretti giudiziari, era già stato riconosciuto ai “laici”, prima ancora che il ddl Bonafede entri in vigore. Un «gravissimo arretramento culturale», scrivono gli avvocati eletti nel Consiglio giudiziario di Bari, in una lunga e amara lettera rivolta ai due componenti di diritto dell’organismo, che — come dappertutto — sono il presidente della Corte d’appello e il procuratore generale. «La logica seguita dai consiglieri, in aperto contrasto con l’esigenza di sempre maggiore trasparenza della magistratura, appare rispondere a scelte chiaramente corporative», scrivono i tre avvocati, «frutto di logiche interne e di quella sorta di allontanamento dalla realtà che finisce con lo sfociare in un elitarismo anacronistico, benzina per la sempre crescente sfiducia della collettività nella magistratura e quindi nella Giustizia del nostro Paese». Ancora, secondo i tre rappresentanti del Foro — Gaetano Sassanelli per gli avvocati di Bari, Giuseppe Limongelli di Foggia e Diego Petroni di Trani — gli atteggiamenti dei “togati” appena entrati in carica ( a novembre) sembrano «lesivi del rispetto non solo dei singoli componenti, ma proprio dell’intera categoria dagli stessi rappresentata e quindi anche dell’avvocatura». I magistrati oltretutto sbattono la porta in faccia al Foro in un momento in cui proprio grazie alla «sempre maggiore collaborazione» offerta dagli avvocati si è riusciti ad affrontare il dramma del covid. Rilievi davvero difficili da contestare, soprattutto perché, come ricordano ancora i tre consiglieri indicati dall’avvocatura, i «metodi sbrigativi che prescindono dal confronto» sembrano concepiti per «imporre quanto a tavolino era stato deciso al di fuori dal consesso». A cosa si riferiscono, i tre consiglieri, nella lettera inviata a presidente e pg della Corte d’appello? Nella precedente riunione, tenuta lo scorso 3 dicembre, i dieci togati elettivi si erano presentati con la mozione già pronta per essere messa ai voti: «Riteniamo non necessario discuterla. È evidente come sull’argomento», cioè la cacciata dei “laici” dalle assemblee in cui si discute di promozioni per i magistrati, «ci sia una netta maggioranza: noi togati siamo tutti favorevoli». Il presidente della Corte d’appello, Franco Cassano, legge e trasecola. E ribatte: «Io non la metto all’ordine del giorno, mi dispiace. Se volete se ne discute nella prossima riunione del Consiglio giudiziario». In quella fissata per oggi, appunto. Che rischia di registrare un fatto clamoroso: la totale e definitiva assenza dei laici dalle attività dell’organismo. I tre rappresentanti del Foro infatti, nella lettera a Cassano e alla pg Annamaria Tosto, esprimono non solo la loro incredulità, ma anche la ferma determinazione a «rimettere nelle Vostre mani i nostri mandati in ragione della totale inutilità, a queste condizioni della nostra presenza. Se le decisioni devono essere adottare al di fuori del Consiglio e prima di qualunque confronto, come invece ci insegna la nostra Costituzione, allora», scrivono gli avvocati Sassanelli, Limongelli e Petroni, «procedano pure senza la nostra presenza, così risparmiando all’avvocatura una mortificazione tanto ingiusta quanto grave».

La consigliera rappresentante dell’accademia, la docente dell’università di Bari Carmela Ventrella, non può rimettere il mandato — lo impedisce il regolamento dell’ateneo — ma ha già fatto sapere che la propria investitura resterà “bianca”, e cioè che anche lei non si farà più vedere in alcuna riunione dell’organismo. La storia non si comprende se non si spiega un antefatto. Come detto, la legge al momento non prescrive il diritto di tribuna dei laici, nelle riunioni dei Consigli giudiziari destinate alle valutazioni di professionalità dei magistrati. Ma intanto, come ricordato dalla lettera degli avvocati, in 14 distretti su 26 la prerogativa è ormai riconosciuta per regolamento. Una prerogativa importante, perché qualora le solite correnti intendessero far promuovere un collega non proprio irreprensibile, sarebbe più difficile che possano farlo senza imbarazzi se alla riunione partecipano, pur senza votare, anche gli avvocati. Ma non è solo questo. A Bari il diritto ad “assistere”, per i laici, non era previsto, all’inizio della scorsa consiliatura. Poi si sono verificate un paio di cosette: la vicenda di Palamara a livello nazionale e, a livello locale, il caso dei magistrati di Trani accusati di aver pilotato e dirottato indagini. Cosicché la componente togata del “vecchio” Consiglio giudiziario decise che era opportuno offrire anche all’esterno un segnale di trasparenza, e aprire le porte di qualsiasi riunione anche ad avvocati e professori. Adesso, come si legge nella lettera a Cassano e Tosto, si torna indietro. Come se si preferisse gestire solo tra le correnti quelle questioni delicate e a volte imbarazzanti che hanno già scatenato un uragano per l’intero ordine giudiziario del Paese. Un «gravissimo arretramento», scrivono gli avvocati. Si accettano proposte per trovare una definizione migliore.