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Vent’anni per arrivare ad un processo. E altri sette perché dei giudici stabilissero che il fatto non sussiste. È una storia paradossale quella della cosiddetta “banda della coca” di Alghero. Che non esiste, secondo i giudici, che si sono ritrovati a giudicare presunti trafficanti di cocaina, un affare che dalla Sardegna arrivava alla Calabria, passando per Roma e per la Colombia. Ma dopo quasi tre decenni, lo Stato si ritrova ora a dover risarcire i primi quattro imputati per l’irragionevole durata del processo di primo grado. Una strada che potrebbero seguire ora anche le altre persone coinvolte, assieme a quella della richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione.
Tutto comincia nel 1991, quando 15 persone, dopo la soffiata di una fonte confidenziale e il lavoro di agenti sotto copertura, vengono coinvolte in un’indagine su un presunto traffico di sostanze stupefacenti. Per otto di loro l’accusa è di aver promosso, diretto e organizzato un’associazione per delinquere finalizzata allo smercio della droga e così finiscono in carcere, rimanendoci per circa un anno.
L’udienza preliminare arriva nel 1995, ma il Gup di Sassari annulla la richiesta di rinvio a giudizio, rimettendo gli atti al pm, al quale chiede altre prove a carico delle persone coinvolte.
Nel tornare in Procura, però, le carte spariscono. Non se ne accorge nessuno fino al 2010, quando dopo 19 anni di silenzio viene notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, con una nuova udienza preliminare fissata ad ottobre. Alcuni faldoni spariscono e per far iniziare il processo è necessario attingere da più parti: dai carabinieri per le intercettazioni, mentre altri documenti vengono forniti direttamente dalle difese. Con quanto ha in mano, l’accusa chiede il rinvio a giudizio e si arriva, dunque, a luglio del 2011, quando il gup decide di mandare tutti a processo. Ma dopo sei anni, a novembre del 2017, tutti gli imputati vengono assolti perché il fatto non sussiste. «Nonostante fossero decorsi i termini della prescrizione - spiega al Dubbio l’avvocato Paola Milia - i giudici sono entrati nel merito, spiegando che questa banda non è mai esistita. Si è trattato, invece, di una sorta di invenzione di alcuni confidenti e di agenti sotto copertura, che però non hanno mai portato le prove della sua esistenza». Secondo quanto si legge in sentenza, le testimonianze sono risultate vaghe e insufficienti e «nulla è poi emerso con riferimento al delitto associativo». Ma non solo: di alcuni dei soggetti indicati come promotori del traffico «non è emerso neppure il nome nel corso dell’attività istruttoria».
La sentenza è diventata irrevocabile il 31 marzo del 2018, ma l’assoluzione non è bastata ai difensori di Salvatore Budruni, Giuseppe Ballone, Antonio Martiri e Gervasio Madeddu, gli avvocati Gabriele Satta, Franco Luigi Satta e Milia, che hanno presentato ricorso alla Corte d’appello, ottendendo un risarcimento di 600 euro per ogni anno successivo ai tre anni riconosciuti come periodo ragionevole di durata di un giudizio di primo grado. Ad ognungo di loro, adesso, andrà una cifra compresa tra i 16mila e i 18mila euro. «Questo caso sottolinea Milia - rappresenta il classico esempio di come la sospensione dei termini della prescrizione sia incostituzionale e illegittima e renderebbe discrezionale la trattazione dei processi in fase d’appello. Noi avvocati da domani ( oggi, ndr saremo in agitazione. Molti degli imputati di questo processo hanno dovuto rinunciare a tutto, si sono visti togliere concessioni demaniali e le loro famiglie sono dovute andare via. Si parla sempre e solo dei colpevoli conclude - ma ci si dimentica che a processo ci finiscono anche gli innocenti».