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«Questa riforma del carcere non è probabilmente la soluzione definitiva, ma sicuramente è un passo in avanti verso una applicazione del principio costituzionale che salvaguardia la dignità della persona in ogni occasione, e che vede nella pena - oltre al suo aspetto afflittivo - anche l’aspetto di recupero del reo». Lo sostiene il presidente del Cnf Andrea Mascherin in una intervista concessa a Radio radicale. «La pena - ha detto Mascherin - è sempre di per sé afflittiva. Chi trascorre un periodo in carcere oppure in misure alternative si trova comunque in una condizione di perdita totale o parziale della libertà. E sappiamo tutti che la recidiva di chi ha goduto di misure alternative al carcere è di gran lunga inferiore rispetto a quella di coloro che restano in carcere. Anche a voler fare una valutazione non costituzionale, il recupero del reo è un grande vantaggio per la sicurezza del Paese».
Più misure alternative, carceri meno affollate, riduzione del tasso di recidiva. Presidente, come commenta l’approvazione della riforma penitenziaria? È indubbio che il timore o il sospetto era che questa riforma non andasse in porto non perché non meritevole ma perché fatta oggetto di pressioni di segno contrario. Queste pressioni venivano da una visione della pena e del carcere sicuramente non in linea con la Costituzione, ma in linea con un sentimento comune di stampo giustizialista. Il timore era che la politica fosse rimasta ostaggio di queste pressioni, e invece questa volta – ma non è la prima volta – si è dimostrato che la buona politica esiste, e che questa ha saputo fare quanto toccava fare a un Parlamento rispettoso della Carta Costituzionale: attuare la riforma. Si tratta di un passo in avanti, non è ancora probabilmente la soluzione definitiva, ma sicuramente un passo deciso verso una applicazione del principio costituzionale che salvaguardia la dignità della persona in ogni occasione, e che vede nella pena – oltre al suo aspetto afflittivo – anche l’aspetto di recupero del reo. Va ricordato sempre che la pena è sempre di per sé afflittiva. Chi trascorre un periodo in carcere oppure di misure alternative si trova comunque in una condizione di perdita totale o parziale della libertà. Ma sappiamo tutti benissimo – e questo è un dato non contestabile – che la recidiva di chi ha goduto di misure alternative al carcere è di gran lunga inferiore rispetto a quella di coloro che restano in carcere, ambiente criminogeno e non di recupero. Anche a voler fare una valutazione non costituzionale ma di mero opportunismo, tutti sappiano che il recupero, la reintroduzione del reo nella società, sono un grande vantaggio per la comunità e per la sicurezza del Paese.
Questo provvedimento ha avuto un iter lungo e travagliato. Orlando ha precisato che non si tratta di un provvedimento salva– ladri. Tali espressioni, come salva– ladri, sono demagogiche. Tendono a trasmettere una sorta di panico, di sfiducia nelle istituzioni e un senso di allarme. Non sono espressioni responsabili. Oggi invece occorrerebbe che tutti assumessero posizioni concrete e responsabili, senza farsi trascinare dalle emozioni e dalle esagerazioni della campagna elettorale, ma restando alla realtà. La realtà è che questa riforma riconosce tra le altre cose quello che deve essere riconosciuto ad un giudice, almeno secondo la nostra Costituzione, che è l’esercizio della discrezionalità. Nei casi concreti il valore di questa riforma sta proprio anche in questo: il giudice non mette automaticamente fuori qualcuno. Ha la possibilità ampliata di valutare caso per caso se un soggetto merita una misura alternativa. Ovviamente il giudice farà il suo lavoro secondo quella che è la normativa, secondo quelli che sono gli approfondimenti. Si tratta di una garanzia per tutti.
Questo decreto di certo non rappresenta una rivoluzione copernicana. Ma quanto ha contato per il risultato ottenuto l’iniziativa del Partito radicale, in particolare di Rita Bernardini? Al primo posto vi è sempre la volontà politica e in questo caso dobbiamo dare atto soprattutto al ministro Orlando di avere voluto fortemente la riforma. Sono convinto che la politica italiana sia soprattutto buona politica. Certo, non tutta. Ma in gran parte è buona politica. La buona politica poi trae determinazione dal sostegno che può venire da determinate forze culturali. Quindi, quando c’è la buona politica, il sostegno dato da Rita Bernardini, dai radicali e dall’avvocatura è sicuramente stato importante. Ma ci vuole la cultura politica che in questo caso è garantista, di equilibrio, di rispetto dei principi costituzionali, non di rassegnazione a una carenza di sicurezza o a una volontà di aprire le carceri per far uscire pericolosi delinquenti. Il problema è che i media normalmente esaltano, danno grande rilievo al singolo episodio di chi si sottrae magari a una misura alternativa o a un permesso, approfittandone per fuggire, ma non danno assolutamente conto dei grandissimi numeri di segno contrario di quelli che proprio grazie alle misure alternative si reinseriscono, non delinquono di nuovo, e diventano parte attiva della società.
Basterebbe a volte semplicemente informare sui contenuti di un provvedimento come questo per far capire meglio ai cittadini di cosa di tratti. Ciò però non conviene a certi giornali e a certa politica. Oggi in Italia essere garantisti è impopolare. Poi però accanto al ministro Orlando si sono schierate alcune realtà come l’avvocatura, una certa élite culturale, il Partito radicale, che per consuetudine non solo non sono abituate a cercare il consenso: sono abituate piuttosto, in nome di un sistema garantista democratico, a fare esattamente il contrario, a fare battaglie anche impopolari. E poi la storia ci dà ragione: dove si buttano via le chiavi abbiamo sempre situazioni di mancanza di democrazia. Inviterei chi si oppone a questa riforma ad andarsene un po’ in Turchia o altrove – le alternative non sono poche – e verificare qual è il modello di processi veloci, senza garanzie, di carcere a tempo indeterminato, di prescrizioni infinite e così via. Forse tornerebbero in Italia di corsa.
Un’ultima domanda: la sua presidenza si sta caratterizzando in maniera netta per una collaborazione, per una forma di dialogo che forse prima è mancata o non era evidente, con il Consiglio superiore della magistratura. Di pochi giorni fa è un nuovo protocollo tra il Cnf e il Csm. La giurisdizione è fatta da magistrati e da avvocati. E l’autonomia e l’indipendenza degli uni dipende da quelle degli altri, e la missione è assolutamente comune, ossia quella di garantire uno Stato di diritto con ruoli evidentemente diversi. Il dialogo deve essere assolutamente scontato, l’importante è che nessuno pensi di essere migliore dell’altro. Con questo Csm il dialogo si fonda su queste basi e insieme si cresce. Certo, si possono contrastare alcune opinioni, ma sempre in maniera dialettica. Questo aspetto manca purtroppo nel nostro attuale sistema sociale e politico: a prevalere sono il linguaggio d’odio, l’aggressione verbale; si sacrificano i contenuti a una forma, in genere violenta, di sopraffazione dell’uno sull’altro. Noi avvocati siamo per la dialettica dentro e fuori il processo, per la fiducia nel cittadino e per la negazione di uno Stato basato sul sospetto. Questo, quando condiviso dalla magistratura, serve per uscire da momenti emergenziali e per costruire probabilmente anche un sistema politico più equilibrato. Siamo a 70 anni dalla nascita della nostra Costituzione: settanta anni fa tre culture diverse – quella socialista comunista, quella liberale e quella cattolica – hanno scritto la Costituzione a partire da ideologie molto lontane tra di loro.