Il patto sociale tra medici e avvocatura si rinsalda, grazie al “soccorso” prestato dagli avvocati alla Federazione nazionale dell’ordine dei medici, che ha denunciato le pratiche speculatorie di una piccola parte dell’avvocatura durante l’emergenza coronavirus. Pratiche stigmatizzate dal Cnf, con il quale ora l’ordine dei medici vuole avviare un percorso di valorizzazione delle professioni, quali garanti dei diritti sanciti dalla Costituzione. Ad annunciarlo, al Dubbio, è Filippo Anelli, presidente della Fnomceo, che parla anche del momento difficilissimo vissuto dalle professioni sanitarie. Presidente, il Cnf ha risposto presente al suo appello. Devo ringraziare il Cnf, che ha condiviso la nostra preoccupazione. Nella situazione di difficoltà senza precedenti in cui si trova il nostro Paese, in cui anche la professione sta pagando uno scotto altissimo, ho espresso il timore che alcuni iscritti all’ordine degli avvocati utilizzassero questo momento di dolore e sofferenza per speculare. Il Cnf ha espresso apprezzamento per quanto i medici stanno facendo e la forte determinazione a voler vigilare sui comportamenti non coerenti con i principi deontologici. Ciò ha aperto una discussione sull’importanza delle professioni. Sì. È un momento molto importante, che fa emergere quanto siano fondamentali nella nostra società, non solo per le competenze che hanno, ma anche perché rappresentano la spina dorsale del Paee. Le professioni sono quelle che oggi rendono possibili alcuni diritti, come quello alla salute e alla difesa. Medici e avvocati, insieme, rappresentiamo anche quel principio di uguaglianza e di equità che soltanto le professioni come le nostre possono realizzare. In questo momento di difficoltà le professioni tornano ad essere protagoniste, dopo essere state, in passato, trascurate e ridimensionate. È l’inizio di un percorso comune? Il Cnf ha proposto una modifica della Costituzione per rendere più forte il ruolo dell’avvocatura, noi stavamo seguendo una strada diversa, ma complementare, ovvero la ricostruzione di un rapporto con la società civile. L’emergenza, oggi, ci porta su un percorso comune. Assieme al Cnf vorrei riprendere una riflessione del ruolo delle professioni nel nostro Paese, a partire dal rispetto dei diritti costituzionali, che siamo noi a garantire. I medici hanno denunciato uno stato di abbandono da parte del governo. È così? Non direi abbandono, ma purtroppo in questo Paese i meccanismi che dovrebbero funzionare in un’emergenza e che dovrebbero essere già rodati spesso non funzionano. Abbiamo tutto il supporto del governo, ma vorremmo che questo si traducesse in qualcosa di più concreto. In passato l’idea di trasformare la professione in un’attività di mero tecnicismo ha messo a rischio la nostra autonomia, che è stata fortemente condizionata. Anche oggi? Fino a ieri, diciamo. Basti pensare al decreto Lorenzin sull’appropriatezza prescrittiva, che faceva dipendere la prescrizione, ad esempio, di una tac dalla quantità di giorni di dolore. Era una visione quasi fordista del ruolo del medico, che invece risponde personalmente delle proprie scelte. In qualche modo l’emergenza ha fatto venire alla luce l’esigenza di riconoscere questo profilo della professione? Diciamo che nell’emergenza vengono fuori i ruoli fondamentali all’interno di questa società. Fino a poche settimane fa si parlava di no vax, oggi, se ci fosse un vaccino, non credo ci sarebbe qualcuno disposto a non farlo. Certe situazioni fanno venire fuori i valori veri, annichilendo le posizioni demagogiche e fuori luogo. Però i medici stanno ancora lavorando in carenza di dispositivi di protezione individuale. Com’è possibile? L’emergenza ci ha colti di sorpresa. E su questo andrebbe fatta una riflessione. La difficoltà di una gestione unitaria, la frammentazione in tanti servizi sanitari regionali non ci ha sicuramente favorito, così come il fatto che il ministero della Salute fosse così strutturalmente debole nella sua cornice costituzionale e organizzativa dello Stato. Non ci ha favorito il fatto che i manager siano stati oggi sempre più abituati al rispetto degli equilibri di bilancio e non invece a una quasi maniacale ricerca della tutela della salute come esigenza prioritaria, anche rispetto alla spesa. Non ci ha favorito il fatto che i medici oggi siano considerati sempre più condizionati dall’iperproduzione di norme burocratiche che rendono sempre più complicato l’esercizio della professione. Questo è il terreno su cui si è innestata l’emergenza. Poi c’è il fatto di aver sottovalutato l’esperienza cinese e il pericolo che da un momento all’altro potesse palesarsi anche nel nostro Paese. Dal paziente 1 ad oggi, com’è possibile che medici ed infermieri non siano adeguatamente protetti? La mia sensazione è che sia difficile governare un sistema di questo genere se l’orientamento nazionale perde di forza nel momento in cui devi sempre avere un contraltare regionale. Il modo di affrontare l’emergenza in Lombardia è ben diverso dal Veneto, dall’Emilia e dalle regioni del Sud. È una difficoltà intrinseca, dove prevalgono le disuguaglianze. Probabilmente è propria questa frammentazione che oggi non ci aiuta ad avere un modello decisionale forte, che potrebbe garantire una guida certa ed assoluta in grado di affrontare l’emergenza. Il nostro sistema è debole. Il problema è anche un modello ospedale-centrico? Sì. Pensare di superare l’emergenza aumentando il numero dei ventilatori non è la strada corretta per affrontare un’epidemia che vede un sacco di soggetti a casa per mancanza di presidi sufficienti, col rischio di una lesione dei diritti costituzionali. Servono percorsi dedicati al Coronavirus e percorsi assistenziali anche a domicilio, dove un ruolo importante lo giocano i professionisti sul territorio. Che suggerimento darebbe al governo per fronteggiare meglio l’emergenza? Una task force non può essere composta solo da esperti epidemiologi, ma dovrebbe tener dentro anche l’esperienza dei clinici, degli anestesisti e dei medici che lavorano sul territorio. È un approccio che tiene dentro tutti gli aspetti articolati e poiché il nostro sistema sanitario è uno dei pochi al mondo che ha una rete di controllo territoriale straordinaria e così diffusa è veramente incredibile che in una circostanza come questa tale rete non sia assolutamente utilizzata. Quanti sono i medici caduti per Coronavirus? La media è elevatissima, abbiamo superato i 70 decessi e gli 8mila contagi, che crescono giorno dopo giorno. È una situazione davvero preoccupante. Questo per via della mancanza di dispositivi di protezione individuale sia perché, proprio per questo motivo, gli ospedali sono diventati luoghi di diffusione del virus. E ovviamente diventano moltiplicatori. Quanto tempo ci vorrà per uscire da questa situazione? Difficile dirlo. L’andamento si sposta da nord a sud in tempi e modalità diverse. Oggi alcuni dati sembrano far prefigurare una riduzione dell’epidemia al nord: questo significherebbe che nel giro di un mese e mezzo il nord potrebbe uscirne completamente. Al sud il dato potrebbe variare dai 15 ai 20 giorni. Ma dipende anche dall’impatto che avrà e dal contagio di ritorno, visto che molti di coloro che si lavorano al nord oggi si trovano al sud. I medici del sud le hanno segnalato problemi particolari? Sono preoccupati dall’atavica carenza di personale e posti letto e di un apparato organizzativo e amministrativo ben diverso da quello del nord. La carenza di dispositivi e le difficoltà sono uguali in tutta Italia. La nota positiva credo che sia la generosità. Rende ammirevole questo Paese e queste professioni.