Se ci fossero stati dubbi sul fatto che l’avvio di procedura contro l’Ungheria non rispondeva solo alla giustificata intenzione di censurare un governo che piega spesso verso comportamenti autoritari e censori ma era anche la mossa d’apertura di una campagna europea in grande stile, il commissario europeo all’Economia Moscovici li ha fugati tutti. Non era mai successo che un commissario europeo, quindi a tutti gli effetti un rappresentante al massimo livello delle istituzioni dell’Unione adoperasse toni simili, bollando una serie di leader politici come «piccoli Mussolini», evocando gli anni ‘ 30 e addirittura definendo un governo democraticamente eletto «un pericolo per l’eurozona».

Non sono questi i toni solitamente usati dai felpati commissari di Bruxelles e meno che mai da Pierre Moscovici, che è sempre stato una colomba nota per l’estrema diplomazia. Ma «à la guerre comme à la guerre» e i due partiti che sono stati nel corso degli ultimi decenni le colonne portanti dell’Unione e del Parlamento europeo, il Pse di cui Moscovici fa parte e a maggior ragione il Ppe, si sentono in guerra. Gli stessi toni del francese, così sopra le righe e così distanti dal suo stile, rivelano quanto elevato sia l’allarme a Bruxelles in vista delle elezioni di maggio, quelle che potrebbero terremotare l’intero quadro e costringere a ridisegnare tutte le mappe politiche dell’Unione. Il rischio che la destra "sovranista" conquisti la maggioranza, ammette lo stesso Moscovici, per ora non c’è. Ma quello di una avanzata impetuosa che la proietterebbe comunque al centro della scena invece c’è tutto, ed è questa minaccia che il commissario all’Economia definisce ' essenziale ed esistenziale'.

Se non si tiene conto di questa cornice, diventa impossibile capire il braccio di ferro in corso non solo tra Roma e Bruxelles ma anche, all’interno dell’esecutivo italiano, tra le delegazioni dei due partiti di maggioranza e quella tecnica e più vicina all’impostazione della Ue, incarnata dal ministro dell’Economia Tria e da quello degli Esteri Moavero ma in parte anche dallo stesso premier Conte. Il vero rischio di contagio non pare dall’Ungheria e dai paesi di Visegrad, che tutti tranne uno sono al di fuori dell’eurozona e sono comunque periferici, ma dall’Italia, uno dei paesi fondatori dell’Unione, seconda economia manifatturiera del continente, dunque, a tutti gli effetti, parte essenziale del cuore dell’Unione. L’offensiva è partita prendendo di mira Victor Orban ma con gli occhi rivolti soprattutto a Di Maio e Salvini.

La legge di bilancio è diventata così il campo di battaglia sul quale si gioca una partita che riguarda solo in misura limitata i conti pubblici ed è invece di natura tutta politica. In effetti la posta in gioco, in termini di miliardi sonanti, è limitata. L’Unione chiede che il famoso rapporto tra deficit e Pil non superi l’ 1,6%, sette decimali in più di quel che si era impegnato a fare il governo Gentiloni ma lo scarto è giustificato dalle mutate condizioni economiche generali. Con poca prudenza sia Di Maio che Salvini avevano messo in campo in agosto l’ipotesi di raddoppiare quasi il deficit fissato dall’Unione e adottato dal ministro Tria sforando il tetto del 3%, cioè il famigerato parametro Maastricht. Probabilmente si trattava di una classica sparata da suq, una di quelle sparate esorbitanti all’inizio della contrattazione fate appo- per poi scendere e chiudere sulla classica via di mezzo. In effetti l’obiettivo della Lega e di M5S è molto più modesto: dall’ 1,6% di Bruxelles e di Tria mirano ad arrivare a un 2,1%, comunque molto distante dal proibitivo tetto fissato dalle regole di Maastricht.

Il calco-lo dei due vicepremier si è rivelato sbagliato. Le allusioni alla possibilità di sforare il tetto del 3% hanno provocato un’ondata di panico sui mercati, rientrata solo dopo la retromarcia ufficiale di entrambi. La settimana di febbre alta, con lo spread vicino alla linea di confine dei 300 punti, ha però indebolito di molto la loro posizione nella contrattazione, invece di rafforzarla. Non ha mancato di censurarla il presidente della Bce Draghi, che ha indicato di fatto proprio quelle incaute esternazioni come responsabili dei ' danni per le famiglie e per le imprese italiane'. Nello stesso intervento, più garbato di quello di Moscovici nei toni ma più duronella sostanza, Draghi ha escluso l’eventualità di un intervento della banca a protezione del debito italiano, di fatto lasciando l’Italia in balia dell’eventuale innalzamento dello spread, e ha ribadito la necessità di mantenere gli impegni, in concreto di restare nel perimetro fissato da Tria.

Per la maggioranza gialloverde accettare il diktat significa rinunciare nel concreto ad avviare le riforme promesse e siglare la resa di fronte agli imperativi europei sotto il profilo simbolico. Condizioni entrambe molto pesanti, che hanno infatti portato alle stelle la tensione con Tria: minaccia di dimissioni da una parte, di licenziamento in tronco dall’altra. Non sarebbe una semplice tempesta. L’uscita del ministro dell’Economia dal governo implicherebbe la rottura con il Quirinale e con Bruxelles, porterebbe probabilmente alla crisi di governo e alle elezioni anticipate, in condizioni economiche a quel punto disastrose. Si capisce bene perché Mattarella stia facendo il possibile per tranquillizzare la situazione evitando l’incidente fatale.

In circostanze diverse Bruxelles avrebbe fatto la stessa cosa, tanto più che dal punto di vista economico la posta in gioco, quel mezzo punto di deficit in più o in meno nella manovra, è di importanza limitata. Dunque la commissione avrebbe trattato decimale per decimale, stando peraltro attenta a calibrare i toni per lasciare comunque alla controparte la possibilità di uscirne salvando la faccia. Stavolta ha adottato la linea opposta, proprio perché il braccio di ferro è politico e la posta in gioco non è la rapidità nel risanamento dei conti dell’Italia ma la necessità di fermare il contagio che parte da Roma prima delle elezioni di maggio. Per questo è necessaria una sconfitta politica dei partiti di maggioranza che sostengono il governo. Non a caso Draghi si è peritato di citare solo i ministri tecnici, Tria e Moavero, e Conte, che lo è a sua volta in buona parte. Segnale plateale di sfiducia verso la componente politica.

Questa è la sfida che entrerà nella fase bollente con la presentazione della nota di aggiustamento al Def, il 27 settembre, ma proseguirà poi per mesi perché è probabile che la maggioranza accetti una nota aggiuntiva rigorista con l’obiettivo però di cambiarla e allargarne le maglie poi in aula. Per questo Draghi si è peritato di specificare che dopo tante parole ' dannose' bisogna ora aspettare sia la Nota che il voto del Parlamento. Sarà una partita dura. Riguarderà non solo e non tanto i conti della penisola ma l’equilibrio politico del continente.