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Salsabia Mouhib, cittadina marocchina residente in Italia ha subito a lungo le violenze egli abusi del marito, il connazionale Abdeleliah El Ghourafi. Alla donna era vietato uscire dal suo appartamento se non per casi eccezionali e comunque rigorosamente velata dal burqa, non poteva disporre delle chiavi di casa e dei propri documenti di identità. Un rapporto-prigione. Dopo anni di umiliazioni Salsabia ha trovato la forza di denunciare il compagno-padrone e oggi vive in una casa famiglia, lontana dal suo aguzzino. Ma per il sostituto procuratore di Perugia, Franco Bettini El Ghourafi non è stato un marito violento, anzi avrebbe agito in modo «conforme al quadro culturale e religioso dei soggetti interessati» e ha quindi archiviato il caso, sostenendo che l’uomo «non ha mai picchiato né minacciato di morte» la consorte. Bizzarra interpretazione della legge che diventa “diversa per tutte”, a seconda della religione o della tradizione culturale degli individui. Una donna italiana sequestrata in casa dal marito può ottenere giustizia, una straniera di religione musulmana no: essere privata del diritto fondamentale di poter disporre del proprio corpo è accettabile perché sarebbe coerente con i dettami dell’Islam. Peccato che non sia affatto vero. Né il Corano ne gli hadit (aneddoti sulla vita del Profeta) autorizzano un uomo privare la moglie della sua libertà, a rinchiuderla dentro quattro mura, nessun testo sacro permette un simile sopruso, sono comportamenti illeciti e sanzionati, giustificati soltanto dal frange confessionali radicali quanto minoritarie. A naso il sostituto procuratore Bettini non deve essere un grande esperto di diritto islamico né di cultura musulmana. Ci chiediamo perché non abbia aperto qualche libro prima di archiviare il caso.