Ha ragione Andrea Agnelli o ha ragione Antonio Conte? Oppure hanno entrambi torto? La questione in sé è risibile. Nel paese ancora ammorbato dal Covid la voglia di annusare la normalità ha però portato milioni di italiani ad appassionarsi alla “disfida dei cafoni” tra il presidente della Juventus e il suo ex allenatore, oggi sulla panchina dell’Inter. La coppa Italia, i bianconeri qualificati , i nerazzurri eliminati, gli insulti di Agnelli, e il dito medio di Conte, sulla scia della trans agonistica il duello rusticano che prosegue in conferenza stampa, gli juventini da una parte, gli interisti dall’altra. Fazioni schierate come falangi sul campo di battaglia dei social, ognuno a difendere il proprio beniamino e a sbertucciare il rivale con i giornalisti in sollucchero a rimestare sanamente nel torbido, Nulla di strano, anzi; le schermaglie del bar dello sport sono una rassicurante abitudine nazionale, una giocosa sublimazione della guerra che ci accompagna da quando esiste il calcio professionistico e forse uno dei pochi motivi che rendono il calcio uno spettacolo ancora autentico. Screzi tra tifosi, partigianeria e campanilismo, la cara vecchia normalità, insomma. Peccato che un ingombrante attore sia entrato in scena con la delicatezza di elefante, e non stiamo parlando dei media che nel bene e nel male fanno il loro mestiere. Ma della procura della Figc che ha aperto un’inchiesta ufficiale sullo scambio di contumelie avvenuto allo Juventus stadium, Non è bastato il parere del giudice sportivo che, dopo aver letto il referto dell’arbitro Mariani con grande buon senso , aveva deciso di archiviare la vicenda e non sanzionare né Agnelli, né Conte, né tantomeno i dirigenti Paratici e Oriali, il capo dell’ufficio, Giuseppe Chinè ha infatti convocato il quarto uomo Daniele Chiffi. Saranno ascoltati i protagonisti e visionate le immagini del post-partita perché il procuratore vuole “vederci chiaro”. Ma cosa ci dicono quelle immagini che da giorni circolano sul web? Nulla di rilevante o che possa costituire una prova, il labiale in cui Andrea Agnelli avrebbe dato del «pagliaccio» e del «coglione» ad Antonio Conte non è affatto chiaro, mentre le immagini del dito medio brandito dal tecnico interista non sono quelle della Rai ma prodotte dalla stessa Juventus che ospitava la partita di ritorno. Ora i due avversari rischiano una squalifica di diverse giornate e una pesante multa per un episodio uguale alle centinaia che ogni fine settimana avvengono nei campi italiani. Inoltre il prosieguo della scaramuccia nei giorni successivi tra l’ambiente Juve e l’ambiente Inter fa parte della guerra piscologica tra due contendenti al titolo, animate peraltro da una storica e ferocissima rivalità. Se c’è qualcosa che rende ancora interessante e credibile il calcio è proprio questa passionale faziosità e comunque si tratta di roba che non dovrebbe mai diventare oggetto di inchieste giudiziarie di qualunque sorta esse siano. Il protagonismo “fuori dal mondo” della procura federale è un il corollario naturale del codice di giustizia sportiva, il cui articolo uno richiama a un astratto “principio di lealtà”, che è in sé una parodia del diritto, un mostro giuridico: nessuna presunzione di innocenza, processi indiziari come se piovesse, un solo inappellabile grado di giudizio, responsabilità oggettiva delle società sulle azioni dei tifosi. Spetta agli imputati dimostrare la loro non-colpevolezza e per farlo non dispongono praticamente di nessun mezzo e quasi sempre si trovano costretti a patteggiare piuttosto che a battersi per far valere la propria innocenza. Di fatto un intreccio aberrante tra la Santa inquisizione e una corte della Russia staliniana, che di quei grotteschi tribunali porta con sé la cultura ferocemente giustizialista e il disprezzo per le garanzie degli accusati. Basti pensare al grande scandalo di Calciopoli che nel 2006 spedì la Juve di Moggi, Bettega e Giraudo in Serie B con 9 punti di penalizzazione con la motivazione di aver «falsato i campionati 2004-2005 e 2005-2006» e per aver commesso «una fattispecie di illecito associativo» termine allora neanche presente nell’'ordinamento sportivo e che venne tradotto in «illecito strutturale». Un processo lampo in cui la difesa degli imputati ha un ruolo puramente decorativo, e una sentenza confezionata in appena due mesi e mezzo sulla base di oltre 200mila intercettazioni telefoniche il più delle volte piene di confusi scambi di parole e di manifeste millanterie. Quelle stesse intercettazioni che, dopo cinque anni di dibattimenti al tribunale di Napoli, non potevano costituire una prova valida di colpevolezza per la giustizia ordinaria la quale ha infatti assolto gli imputati.