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Il sentimento di odio viscerale nei paesi arabo- musulmani verso gli israeliani è solo il frutto avvelenato della questione palestinese o ha una radice culturale più profonda?
In molti, specie nella sinistra occidentale, si definiscono anti- sionisti ma non accettano l’etichetta infamante di antisemiti. Persino quando ne utilizzano gli argomenti e gli schemi ideologici, ci tengono a precisare di non avere alcun problema con gli ebrei ma unicamente con le politiche di occupazione israeliana. Anche nel mondo arabo l’antisionismo è una bandiera agitata da tante forze politiche sia laiche che islamiste, ma nel corso del tempo la distinzione ha perso significato e i termini Yahoud ( ebreo) e Sahyûniyyûn ( sionista) sono praticamente utilizzati come sinonimi.
Lasciamo perdere le disarmanti sottigliezze linguistiche per cui l’arabo è una lingua semita e quindi non sarebbe possibile parlare di antisemitismo riferendosi a quel contesto. Il termine è stato coniato nel 1879 dal giornalista tedesco Wilhelm Marr ed era riservato esclusivamente agli ebrei e così si è trasmesso fino ai nostri giorni, su questo non può esserci discussione. Il grande storico orientalista britannico Bernard Lewis distingueva l’antisemitismo di matrice europea, razzista ed essenzialista, da quello che nei decenni è dilagato in Medio Oriente strettamente legato alla questione israelo-palestinese e dunque «politico, ideologico e letterario», ma soprattutto fomentato dalle classi dirigenti arabe come forma di propaganda e indottrinamento delle masse popolari.
Questo è stato vero per decenni, ma oggi l’ostilità nei confronti degli ebrei è un tratto che viene dal basso, un elemento popolare e presentissimo in tutte le società musulmane. Un caso esemplare è la Giordania che ha ottimi rapporti diplomatici con lo Stato ebraico ma una popolazione che spesso manifesta inferocita nelle strade contro l’ “entità sionista” e che organizza boicottaggi degli interessi israeliani. Stessa musica in Egitto, altro paese “moderato”.
Questo fenomeno dovuto da una parte all’espansionismo di Tel Aviv nei territori palestinesi in Cisgiordania, dall’altra dalla radicalizzazione religiosa che il mondo islamico conosce da almeno un quarto di secolo. Così, tutti gli ebrei si trasformano senza sfumature in complici dell’occupazione militare, un po’ come accade specularmente in un razzismo di segno opposto: l’islamofobia per cui ogni musulmano è un potenziale terrorista o comunque un losco fondamentalista.
Una delle fortune dell’ideologia antisemita è la sua estrema “porosità” che gli permette di configurarsi e adattarsi a contesti diversi, incorporando gli antichi pregiudizi in nuove morbose categorie e riuscendo ad attraversare i continenti. Come è accaduto per i Protocollidei savi di Sion, un falso creato in Russia nel diciannovesimo secolo diventato poi il romanzo di formazione di tutti gli antisemiti europei, dal caso Dreyfuss al Terzo Reich: oggi nei paesi arabi esistono almeno sessanta edizioni dei protocolli che si possono acquistare nelle librerie senza alcuna nota critica. Nel 2002 i Protocolli sono diventati addirittura una serie da trenta episodi trasmessa dalla televisione egiziana. Nei giornali e nei siti web gli ebrei sono rappresentati attraverso tutti i miseri cliché antisemiti; l’avidità, la furbizia, le caricature con i grandi nasi adunchi e via discorrendo, È la disumanizzazione di un intero popolo accusato di voler conquistare il mondo e di praticare una religione sinistra e diabolica, proprio come su Der Stürmer, la principale rivista nazista di propaganda antisemita creata nel 1924 dal criminale di guerra Julius Streicher. Questo c’entra qualcosa con le politiche di Israele? Non molto, anzi per nulla.
E nulla (o quasi) nella tradizione coranica o in altre fonti islamiche autorizza un simile odio, al contrario nel corso della Storia le due religioni hanno saputo convivere in armonia per lunghi periodi tanto che per secoli gli ebrei sono stati molto più vessati dalla giudeofobia cristiana che dai cugini musulmani. Si tratta dunque di un fenomeno moderno, traslato dal razzismo occidentale con il conflitto israelo-palestinese che è servito da detonatore.
Ma antisemitismo non significa automaticamente discriminazione delle minoranze. Prendiamo l’Iran degli ayatollah ( che non è un paese arabo) dove vive la seconda comunità ebraica del Medio Oriente ( circa 35mila persone) che gode di piena libertà di culto, come previsto dalla costituzione di Khomenei che «protegge» le religioni del Libro. Solo a Teheran ci sono 11 sinagoghe e diverse scuole e centri culturali israeliti e quasi mai si sono registrati conflitti con le autorità o con la popolazione musulmana. Eppure il regime sciita agita da sempre la propaganda antisemita per attaccare Israele, anche in modo gratuito; basti pensare all’assurdo concorso lanciato dall’ex presidente Ahmadinejad per realizzare disegni e vignette sulla Shoah il cui unico scopo era lo sfregio e l’irrisione della sofferenza ebraica. Una contraddizione lampante che però spiega il carattere strumentale dell’antisemitismo contemporaneo, formidabile strumento di mobilitazione politica per ottenere in malafede vantaggi politici che però ha bisogno del fervore costante delle masse, carburante di ogni razzismo nelò corso della Storia.