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Associated Press/LaPresse
Al quinto giorno di guerra contro l’Iran appare sempre più evidente che il conflitto stia cambiando natura, poiché dopo l’obiettivo dichiarato da Israele di voler fermare il nucleare militare emerge quello di un cambio di regime a Teheran. Obiettivo questo non esplicitato ma visibile e deducibile dagli obiettivi militari israeliani: dopo aver decapitato intelligence e milizie di regime, dopo aver colpito strutture scientifiche e centrali per l’arricchimento dell’uranio, Tel Aviv è rapidamente passata a bombardare zone residenziali, depositi di carburanti, sedi di ministeri, creando il panico e il terrore nella popolazione della capitale iraniana.
E si è diffusa, tramite l’agenzia Reuters e la tv statunitense CBS che ha trovato tre fonti governative a conferma, la notizia che Trump ha posto il veto all’assassinio di Khamenei, la Guida Suprema dell’Iran. Se Trump ha posto il veto, nella lunga telefonata con Netanyahu, è evidente che la leadership israeliana ne aveva affermato l’intenzione. Mutare natura alla guerra contro l’Iran è ciò che può far trasfigurare in sconfitta quello che all’inizio era stato un mezzo colpo di genio politico: scagliarsi contro un nemico riconosciuto dalla comunità internazionale, e farlo nell’esatto momento in cui era un’agenzia dell’Onu a certificarlo come tale - con il warning dell’Aiea sull’arricchimento dell’uranio - era servito a rovesciare la tragica maschera da criminale di guerra che ormai Netanyahu grazie agli orrori di Gaza aveva finito per indossare agli occhi della stragrande maggioranza delle cancellerie non solo occidentali.
Quell’indicare un nemico comune era servito anche a ritrovare almeno un po’ di unità nel Paese, come provano le immagini del presidente Herzog che affianca il premier nella visita ai luoghi israeliani colpiti dai missili iraniani. Ma adesso, quella di cogliere la storica opportunità di eliminare il nemico numero uno, rischia di essere solo un’illusione.
Il regime change è un obiettivo fuori portata, e per vari motivi. Anzitutto è la prima volta dalla sua nascita che lo Stato di Israele dichiara guerra a un altro Stato. L’Iran non è un proxy, cioè un’organizzazione politico-terrorista come quelle contro cui Tel Aviv ha sempre combattuto, da Hamas ad Hezbollah e indietro nel tempo fino all’Olp: l’Iran è uno Stato, incommensurabilmente più vasto e popoloso di Israele, capace di far valere in belligeranza la propria forte identità nazionalista, cosa che vale anche per gli oppositori del regime teocratico, come accadde per esempio nel sanguinoso conflitto contro l’Iraq.
È impossibile far cadere un regime come quello di Teheran senza una reale, strutturata, radicata, ben organizzata e armata resistenza interna, che invece in Iran semplicemente non esiste. Tsahal e Mossad, per mettere a segno i loro colpi, si sono appoggiati a minoranze etniche usandole come infiltrati. Hanno fatto quello che per Tel Aviv è business as usual. Inoltre, come avvertiva ieri un editoriale di Haaretz, puntare al regime change potrebbe spingere i persiani a compattarsi, e gli ayatollah a prendere misure estreme.
Anche se il 92 per cento dei missili lanciati contro Israele sono stati intercettati dai tre sistemi di difesa aerea di cui Tel Aviv dispone - Iron Dome, Arrow, David’s Sling - non lasciano tranquilli le istantanee dei missili caduti a Dimona, la base nucleare israeliana, o dei droni che sibilano sulla residenza di Netanyahu. L’impressione di molti analisti – ne scriveva il Wall Street Journal, per esempio - è che Netanyahu abbia sottovalutato la capacità del regime di riorganizzarsi dopo i primi, spettacolari, colpi israeliani. E infine, il più cruciale dei motivi che sconsiglia di tentare di detronizzare gli ayatollah: non esistendo opposizione interna, non esiste nemmeno una leadership pronta a colmare il vuoto di potere che si creerebbe.
L’Iran finirebbe in una situazione libica, e questo sarebbe spaventoso. Così spaventoso da spaventare anche l’Arabia Saudita, che dell’Iran è nemica, e la Russia, che dell’Iran è amica. Israele poi ha colpito molti siti nucleari, ma resta intatto il più rilevante, quello di Fordow destinato alla costruzione della bomba atomica: è a un po’ meno di cento metri di profondità, nel cuore di una montagna che sovrasta Teheran, e per distruggerlo Israele non ha l’arma adatta.
Le bombe di profondità dovrebbe fornirle Donald Trump, che come si vede sta facendo di tutto per non entrare in guerra con l’Iran. Il Pentagono e i suoi consiglieri militari, nonché la sua sedicente refrattarietà alle guerre, devono avergli consigliato prudenza. Imprevedibile ed ondivago, e dunque alla fine inaffidabile, il presidente americano si ritrova però ad essere vittima di se stesso: durante il suo primo mandato alla Casa Bianca stracciò l’accordo internazionale, accettato da Teheran e costato quasi un ventennio di trattative diplomatiche, che teneva sotto controllo il nucleare iraniano. Da allora, gli iraniani hanno sbattuto la porta. E adesso, dopo l’attacco israeliano, potrebbero anche uscire dal trattato sulla non proliferazione nucleare.
La pallida proposta di Trump, respinta nell’ultimo vertice in Oman, era di lasciare agli iraniani la possibilità di arricchire l’uranio, ma di farlo fuori dai confini, sotto controllo dell’Aiea, in modo da limitarne l’uso al solo livello civile, e impedire la bomba atomica. È pensabile che, con Netanyahu che punta al cambio di regime, gli ayatollah tornino al tavolo di trattative? Probabilmente no. E deve essere anche per questo che Trump ha proposto (assurdamente: si tratta dell’invasore dell’Ucraina) Putin come mediatore. Non per i suoi rapporti con Teheran: per quelli che intrattiene, da sempre, con Netanyahu.