Nell’estate del 1990, preludio di uno dei suoi più grandi successi sportivi con la Sampdoria, un infortunio al ginocchio lo costrinse fuori dal campo per qualche partita. Questa cosa lo tormentava nel profondo. Alle insistenti domande dei giornalisti sul suo stato d’animo alla fine rispose che la cosa che gli mancava di più era scherzare con i compagni di spogliatoio e correre nel fango di Bogliasco insieme a loro. Non il dolore, non le mancate convocazioni, non le malelingue sul suo conto. No. Gianluca Vialli temeva soltanto di perdersi degli scherzi incredibili da raccontare poi in giro, e una rovesciata col kway inzaccherato sotto gli occhi di Boskov.

«La malattia non è una battaglia. Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato, però non posso farci niente. È salito sul treno con me e io devo andare avanti, viaggiare a testa bassa, senza mollare mai, sperando che un giorno questo ospite indesiderato si stanchi e mi lasci continuare il mio viaggio da solo», dirà quasi trent’anni dopo. Nelle sue parole non c’è un briciolo di retorica. Non c’è l’ansia di doversi giustificare o elevarsi a guerriero. Non c’è e non c’è mai stata, nemmeno quando in carriera gli è toccato rialzarsi da cadute ben più soft. Gianluca Vialli era una persona efficiente, meticolosa, precisa, che detestava le esagerazioni e la fatica, ma amava impegnarsi, o almeno così si mostrava. Ma se la retorica non c’è mai stata, il cancro invece c’è stato. Uno dei più duri peraltro, quello al pancreas. Gianluca lo sapeva che sarebbe stato difficile dribblarlo, per questo ha deciso di non puntarlo con arroganza, ma di temporeggiare sul filo del fuorigioco, nella speranza di scappargli alle spalle.

A Gianluca piaceva aiutare gli altri. «Datemi la palla», gridava con ossessione negli spogliatoi ai suoi compagni quando il primo tempo non era andato granché. «Trasformerò i vostri meloni in gol», aggiungeva. Per questo non se n’è andato all’improvviso, ma ha preferito costruire qualcosa prima. Ha metabolizzato il trauma della diagnosi nel 2017, quella sì, arrivata come un fulmine a ciel sereno. Si è preso tutto il tempo che gli serviva per capire come viverlo questo viaggio, senza dirlo persino ai suoi amici più cari, come Roberto Mancini. Non voleva riflettori, commiserazione, pietismo. A lui piaceva essere al centro dell’attenzione solo quando doveva alzare le mani al cielo dopo un gol dei suoi con la Samp. Poi, dopo qualche mese, ha deciso di dirlo a tutto il mondo, senza paura, senza vergogna, in maniera schietta.

E da lì è iniziata la sua corsa contro il tempo, dedicando giorni, settimane e mesi alle cure, portate avanti con l’impegno di chi conosce bene il significato del cronometro che avanza. Ha cercato di guadagnare più tempo possibile, con l’obiettivo di spiegare a sua moglie Cathryn quanto possa essere leggero alla fine il vuoto e la speranza di vedere le sue figlie Olivia e Sofia sempre più grandi, felici e realizzate. Ha scritto lettere, col terrore di dimenticare di salutare qualcuno e si è persino concesso il lusso di apprezzare alcune sfumature della malattia, che tutto ti toglie, ma mentre lo fa, ti regala una sana dose di cinismo che ti permette di vivere a pieno gli abbracci, le carezze, i sorrisi. «Se per esempio muori all’improvviso di notte, tante cose rimangono incompiute». Non il dolore, ma le cose lasciate a metà lo tormentavano.

Questi 5 anni di malattia sono stati come una lunga lezione, di quelle a cui partecipi da ragazzo all’università e poi non te le scordi più. Vialli ha indossato i panni del professore e noi tutti ci siamo seduti in aula magna a fissarlo. Ogni parola che pronunciava, ogni azione che compieva diventava un esempio per tutti. Come quando l’11 luglio 2021, dopo aver vinto gli europei da capo delegazione, si è sciolto in un abbraccio commovente con Mancini, a Wembley. Proprio nello stadio in cui quasi vent’anni prima, con la Samp, non era riuscito a vincere la Coppa dei Campioni in finale contro il Barcellona di Koeman.

Cosa c’era in quell’abbraccio è difficile spiegarlo ora, ma di sicuro gli ha permesso di mettere un punto e terminare un capitolo complicato del romanzo della sua vita. Vialli d’altra parte è uno che i cerchi ha sempre voluto vederli chiudere, costi quel che costi. E questo è successo sempre, sistematicamente. E non perché le parole e le azioni di un malato vengono sempre maneggiate con cura e amplificate. No, nient’affatto, non è questo il motivo. Vialli è stato un modello, perché si è preoccupato di chi sarebbe rimasto, cercando di ignorare che a un certo punto se ne sarebbe dovuto andare; perché ha vissuto la malattia senza l’ossessione di doverla annientare. Non ci ha messo grinta, perché la grinta non serviva. Non ci ha messo tenacia, perché quella la metteva da parte per la radioterapia. Non ci ha messo nemmeno rabbia, perché sapeva bene che morire non sarebbe stata una sconfitta. Non c’è niente di disonorevole nella resa, figuriamoci nella morte. Sfortune e imprevisti appartengono soltanto a noi stessi, e ognuno decide come vuole esorcizzarli. Luca ha scelto di farlo con saggezza. «So che, per quello che mi è successo, ci sono tante persone che mi guardano e se sto bene io, possono pensare di star bene anche loro. Forse perché sono stato un giocatore e un uomo allo stesso tempo forte, ma anche fragile e vulnerabile, quindi credo che qualcuno possa essersi riconosciuto in questo», aveva raccontato di recente in un’intervista. Ed è per questo che quando stava bene amava mostrarsi, correre, parlare in pubblico, fare film, rimpatriate con gli amici, finanziare la ricerca e vincere i campionati europei.

Quando invece stava male si rannicchiava nella sua comfort zone con i suoi cari ad aspettare che la tempesta passasse. Gianluca mancherà a tutti, a me, a chi sta leggendo, a chi lo conosceva, a chi lo sosteneva, ai tifosi di Cremonese, Sampdoria, Juventus, Chelsea, a chi segue la Nazionale, a chi si appassiona di storie di sport, a chi lo sport lo detesta. Mancherà anche a chi non sapeva bene chi fosse e ora sente la necessità di salutarlo per l’ultima volta sui social. Succede così ai grandi. Soprattutto a quelli che lo diventano senza mai averne avuta l’ossessione. «Mi sopravvaluti un po’», mi rispose al primo messaggio che gli ho scritto, non riuscendo a trattenermi dal ricordare la bellezza di un suo gol al Napoli. «Mi sopravvaluti un po’». Ti sbagliavi Gianluca. Ti sbagliavi. E per quanto mi riguarda è stata l’unica volta.