Il Dubbio, a firma Francesca Spasiano, ha riportato il verdetto della Corte Suprema del Regno Unito sulla definizione legale di donna. Una sentenza che sta a significare che una donna transgender con un certificato Grc, cioè una carta legale che riconosce il cambio di genere, non può essere considerata una donna ai fini delle leggi per l’uguaglianza e contro le discriminazioni, codificate ai sensi dell’Equality Act britannico del 2010. «La decisione unanime di questa Corte è che i termini ‘donna’ e ‘sesso’ nell’Equality Act si riferiscono a una donna biologica e al sesso biologico», ha affermato il giudice della Corte Suprema lord Patrick Hodge nel pronunciare il verdetto della Corte Suprema. Viene motivato che interpretare il “sesso” come “sesso certificato” (cioè come genere) creerebbe gruppi eterogenei, perché modificherebbe in modo incoerente sia le definizioni di uomo e donna che “la caratteristica protetta del sesso”.

Il caso deriva da una legge del 2018, approvata dal Parlamento scozzese, sulla parità di genere nei consigli di amministrazione degli enti pubblici, prevedendo una quota rosa obbligatoria del 50%. Inizialmente, questa legge includeva le donne transgender nella definizione di “donna” una volta certificate legalmente come tale. La pronuncia della Corte Suprema britannica è una vittoria per i gruppi favorevoli ai diritti delle donne, For Women Scotland, che sostengono che l’essere uomo o donna è determinato fin dal concepimento in utero e dal sesso al momento della nascita, risultando uno stato biologico immutabile (Aidan O’Neill).

Questa sentenza è contraria alle pretese delle gender teories (fra i suoi primi esponenti John Money) che muovono da una separazione tra sex, inteso come “condizione biologica” e dato naturale dell’essere, basato sulla rilevazione di elementi empirici, e gender inteso come “divenire”, o rappresentazione simbolica o costruzione storico, sociale e culturale dell’identità sessuale e scelta individuale a prescindere dalla considerazione della natura. Pertanto, secondo queste teorie, non è la nascita naturale che determina l’identità sessuale maschio o femmina, ma è la volontà individuale che costruisce l’identità gender, volendo e potendo trasformare il corpo in modo totale o parziale, con possibilità di cambiare, invertire, inter- scambiare aspetti fisici e funzioni sociali tradizionali.

La differenza sessuale, secondo tali teorie, è irrilevante sia per l’identità che per la procreazione, non solo sul piano fattuale (le tecnologie consentono di procreare a prescindere dalla naturale esistenza di due individui di sesso diverso), ma anche sul piano teorico, essendo l’individuo colui che sceglie o può scegliere, sulla base della sua volontà. Questa teoria, che implica molte altre conseguenze, soprattutto nella costruzione della famiglia, risulta ora fortemente criticata da questa sentenza, pur rassicurando i giudici che non si intende escludere le pari opportunità e tutele già a suo tempo riconosciute ai transgender con il Gender Recognition Act del 2004 e del 2022. Una affermazione discutibile, dato che l’obiettivo dei giudici è quello di non equiparare e normalizzare qualsiasi scelta possibile con riferimento all’identità sessuale, contestando quell’orientamento sessuale sopra ricordato, che tende ad assorbire in un tutto indifferenziato qualsiasi forma di diversità percepita come “anormalità”. Peraltro, e questo vale anche per il nostro paese, nel momento che la Gran Bretagna legittima la possibilità di mutare il sesso genetico, in questo caso da uomo in donna, e a tal fine si avvale di un certificato che è il risultato di un iter procedurale, peraltro complesso (certificati medici, trattamenti ricevuti, prova di aver vissuto nel proprio genere acquisito per almeno due anni, dichiarazione legale che continuerà a farlo in modo permanente, consenso del partner), rimane difficile accettare l’ipotesi che il trans non venga considerato donna a tutti gli effetti e con tutti i diritti, tanto più se si continua a conservare la dualità maschio/ femmina al momento della registrazione.

Qualora, invece, si dovesse legalizzare una nuova categoria di registrazione con uno o più significati, come avviene in Germania, a Malta e in altri Paesi, si giustificherebbe la visibilità di persone intersex e di persone che hanno un’identità di genere non binaria (M/F) all’interno della società. Una diversa categoria può, altresì, evitare che queste persone siano di sovente esposte a esperienze negative, a comportamenti discriminatori che riducono la loro autodeterminazione e la libera scelta del loro modo di essere. È nel pensiero post moderno che la categoria gender porta con sé la critica al binarismo sessuale che, come detto, ritiene che i sessi siano due e opposti. D’altronde, la realtà conferma che i casi di ambiguità sessuale alla nascita mostrano che anche la determinazione del sesso biologico non è univoca. I casi di rivendicazione trans–gender, d’identità neutra di uomo o donna sono psicologicamente, socialmente sempre più in crescita e in diversi Paesi sempre più accettata l’ambiguità del corpo che presenta caratteri sia maschili sia femminili, o forse né maschili né femminili.

L’assenza nei registri dello Stato Civile di altre categorie specifiche per le persone che hanno una identità di genere non binaria può occasionare un peso sotto il profilo emozionale e morale per loro. In effetti la registrazione binaria significa che queste persone non sono riconosciute nella loro identità di genere o per la loro intersessualità dallo Stato e dalla società, con conseguenze facilmente intuibili. Di contro, il riconoscimento della diversità conduce inevitabilmente al rispetto del principio di “non discriminazione” o “divieto della discriminazione” che si ritrova in numerosi sistemi giuridici. In questi casi la discriminazione si traduce come ineguaglianza ingiustificata e, dunque, eticamente inaccettabile nei confronti di alcune persone in ragione di certe loro caratteristiche. Vi è sempre il rischio di non poter esercitare certi diritti o non avere la possibilità di vivere in accordo con la loro identità, senza subire degli svantaggi ai quali gli altri non sono evidentemente esposti. Questa violazione dei diritti può promuovere una ragionata riflessione dello Stato sulla diversità, che può tradursi in vulnerabilità, e sull’opportunità o meno del carattere binario della società.