Meglio allontanare subito qualsiasi equivoco: l’Anac è e resta un’autorità indipendente. Giuseppe Busia ha scelto di puntare sulla prevenzione più che sulla tradizionale denuncia dell’Italia nazione infetta, ma lo ha fatto in ossequio a un proprio convincimento, e agli esiti del lavoro condotto, negli ultimi 12 mesi, dalla sua authority.

Ciò detto, non si può tacere neppure di un dato di fatto: è cambiata la cornice. È mutato quel quadro generale in cui, negli anni passati, prima con la presidenza di Raffaele Cantone e poi con lo stesso Busia, l’Anticorruzione si è impegnata nel descrivere un malaffare che sembrava la norma di molti segmenti della Pa. Non che le segnalazioni manchino, nella relazione appena presentata dal presidente Anac: ma c’è una prudenza diversa rispetto ai toni del passato. E la scelta risente delle recenti novità in tema di analisi della corruzione.

Il riferimento è allo straordinario successo riportato a metà dicembre scorso dall’Esecutivo alla Conferenza anticorruzione dell’Onu, tenuta ad Atlanta: un snodo decisivo, in cui il guardasigilli Carlo Nordio ha ottenuto la convergenza su una risoluzione che impegna i Paesi membri a favorire l’adozione di sistemi più scientifici, e meno basati sulla mera percezione dei fenomeni, nelle statistiche, e nei ranking internazionali, sulla diffusione dei fenomeni corruttivi.
È venuta meno così tutta l’impalcatura sulla quale, negli ultimi anni, si è retta la narrazione dell’Italia come patria del malcostume pubblico. Un’impalcatura e una narrazione in realtà fragili, perché riferite essenzialmente ai ranking di agenzie internazionali come Transparency basati appunto non su una meticolosa raccolta di dati giudiziari, ma sull’impressione che i cittadini riferiscono in banalissimi sondaggi-interviste.
Nordio ha lavorato, con successo, affinché la comunità internazionale esplori metodi nuovi.

Lo ha fatto in sinergia con il ministero degli Esteri guidato da Antonio Tajani. E in particolare con il Tavolo di coordinamento interistituzionale Anticorruzione, istituito presso la direzione generale Mondializzazione della Farnesina. Una struttura diretta, fino a pochi giorni fa, da Fabrizio Marcelli, appena nominato ambasciatore d’Italia in Libano, e coordinata da un magistrato a cui l’Italia deve moltissimo, in questo campo: Giovanni Tartaglia Polcini. Quest’ultimo è consigliere giuridico del ministero guidato da Tajani, e lo si potrebbe considerare l’ideologo di una visione che, da anni, reclama l’affrancarsi del discorso pubblico da un racconto solo “percettivo”, e dunque soggettivo, della corruzione.

Oltre che nelle vesti istituzionali ricoperte presso la Farnesina, Tartaglia Polcini se n’è occupato, come riferito già su queste pagine, anche come consulente dell’Eurispes. È stato l’istituto di ricerca presieduto da Gian Maria Fara a insistere per primo sulla necessità di superare un paradosso: secondo le statistiche disastrose di Transparency, l’Italia, sarebbe più infetta del Qatar, ma in virtù de appunto della semplice percezione dei cittadini, i quali avvertono la corruzione come pervasiva e onnipresente proprio per l’operosità instancabile dell’apparato di contrasto che il nostro Paese oppone al malaffare.

Da noi l’attività e la severità della magistratura sono assai superiori rispetto a quanto avviene in altri Paesi, a cominciare dai nostri partner del G7. È così anche quando in gioco ci sono interessi strategici nazionali: basti pensare alle inchieste sulle commesse acquisite all’estero da grandi compagnie come l’Eni. Ebbene, l’intensità della lotta alla corruzione fa apparire quest’ultima come onnipresente, mentre in altri Paesi europei la magistratura requirente, spesso assoggettata all’Esecutivo, è assai meno “invasiva” e non suscita, tra i cittadini, quello stesso grado di “allarme”.
A furia di battere su questo incredibile paradosso, che da Mani pulite in poi ha contribuito a tenere viva l’immagine di un’Italia infestata dalle mazzette, Tartaglia Polcini è riuscito, prima insieme con l’Eurispes e negli ultimi anni nelle vesti di consigliere del governo, non solo a spingere l’Esecutivo verso il superamento di un così masochistico paradosso, ma a portarlo alla vittoria con la risoluzione Onu dello scorso dicembre.

Busia conosce certamente questo background: sa che il tavolo coordinato da Polcini alla Farnesina, in cui Transparency è sì rappresentata ma in condizioni di “minoranza”, costituisce una scelta irreversibile, non foss’altro perché ormai condivisa, sul piano internazionale, ai massimi livelli. Quando poi questo mutamento di paradigma si rifletterà nel discorso pubblico e sul piano mediatico, è difficile prevederlo. Ma almeno, ora, i presupposti ci sono.