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CARCERE DI BOLLATE PRIGIONE GALERA DETENZIONE SBARRE STRUTTURA STRUTTURE DETENTIVA DETENTIVE
«Perché loro e non io?», ha detto Papa Francesco uscendo, per l’ultima volta, da un carcere. Una frase decisiva nella sua “semplicità”. Un rovesciamento di ruoli, un ribaltamento di visione tra chi è dentro e chi è fuori, capace di aprire una fenditura nel muro del securitarismo, lì dove trionfa la pena come punizione, vendetta. Una frase ripresa dalla premier Meloni.
Forse non è molto, eppure è pur sempre una crepa nel linguaggio, nella narrazione securitaria e nella retorica punitiva che tiene il carcere incatenato a se stesso come a un destino irredimibile. Un’occasione da prendere al volo – di più al momento non abbiamo – per provare a bandire il termine “edilizia penitenziaria” che richiama alla mente i capannoni in cui si allevano polli da batteria. Il carcere non è una somma di metri quadri, ma un “progetto” politico e culturale. Oppure non è nulla. Lo ha detto, qualche tempo fa, il vicepresidente della Fai Vittorio Minervini, il quale ha chiesto di smettere di parlare di “edilizia penitenziaria” per parlare di “architettura penitenziaria”.
È una proposta fondamentale perché mette le mani lì dove si forma il pensiero: nel linguaggio; è una rivoluzione copernicana, un rovesciamento di paradigma che considera chi è “dentro” come parte della nostra comunità e non scarto, rifiuto. Non è una questione da archistar radical chic. È una questione politica e antropologica. Perché non c’è rieducazione in ambienti inumani. Perché una società che tratta il carcere come una discarica, si prepara ad abitare essa stessa in una discarica sociale.
Qualcuno in Parlamento ha già ascoltato: Debora Serracchiani, Maria Elena Boschi. Piccoli segnali, certo. Ma i segnali, in politica, sono tutto. Specie quando non hanno rendita immediata. E soprattutto perché – diciamolo – oggi le carceri italiane violano la Costituzione ogni giorno, con il sovraffollamento, con i suicidi, con l’oblio sistematico di chi ci vive. E di chi ci muore. Papa Francesco lo ha detto con semplicità evangelica. Noi dobbiamo ripeterlo con laica devozione: “Perché loro e non io?”. È la sola domanda che può restituire umanità e senso al carcere.