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Ad un certo punto, da cronista dell'Unitá, aveva cominciato ad occuparsi di destra, dell'Msi che andava trasformandosi in Alleanza Nazionale e c'era curiosità per quei primi, contenuti, vagiti. Ci ritrovammo in una periferia di Roma, accorsi ad ascoltare un comizio di Gianfranco Fini. Dopo un po' si avvicinò Domenico Gramazio, tra i camerati soprannominato Pinguino. "Avete sentito Gianfranco? Roba forte", ci apostrofó ammiccante. Stefano lo guardò sottecchi, agitando i giornali che aveva in mano con il gesto di chi fa aria e sbuffa. "A Grama', ma se non ha detto niente", disse sarcastico. E Gramazio di ritorno: "Appunto"!Stefano Di Michele era così, scanzonato, sempre pronto a non prendersi sul serio. Voleva che gli altri facessero lo stesso con lui. Non tanto per generosità: è che così poteva ripagarli con la stessa moneta. Era, e soprattutto continuava a definirsi, comunista. Gli piaceva ribadirlo con il sussiego di chi la sa lunga. Gli piaceva la politica e ne scriveva con la leggerezza di un pianista che sfiora la tastiera sapendo di poter comunque tirar fuori una melodia. Sempre sul registro dell'ironia: mai greve, inesorabilmente ficcante. Gli avevo raccontato che una volta, in un comizio sotto un tendone a Nusco, Ciriaco De Mita mi aveva apostrofato "... e lo dico in particolare per un giornalista con i baffi, laggiù in fondo". Pierluigi Castagnetti, che mi sedeva a fianco, me lo ripeté finché non uscimmo. Stefano mi guardò con quel sorriso che si incollava sotto il naso in mezzo alla barba: quando capiva di potersi divertire. Me lo ritrovai sul Foglio, per un commento scritto su Berlusconi: "... e chissà se gli piace quel che ha scritto sul Cavaliere un giornalista con i baffi". Quando lo rividi in Transatlantico alla Camera, grandi pacche sulle spalle, poi una risata ci seppellí. Ne approfittai per chiedergli:"Scusa, ma com'è al Foglio?". Lui mi guardò sottecchi e disse: "Mah, funziona così. Alla riunione del mattino tutti intervengono su tutto. Poi quando è finita, Giuliano (Ferrara) mi viene vicino e mi dice in orecchio: tu scrivi su quello che cazzo ti pare". Con il passare del tempo i suoi resoconti politici erano diventate note di costume. Gli piaceva mettere alla berlina l'ipocrisia e dileggiare il partito preso. Non era disilluso: semplicemente sapeva cogliere come pochi il lato umano delle cose e delle persone. Il risultato è che quando vedevi quelle tre consonanti in corsivo, tra parentesi, alla fine di un articolo potevi star certo che la lettura ti avrebbe arricchito. I suoi articoli sapevano del mezzo sigaro che sempre stringeva tra le dita e raramente accendeva. L'aneddoto era la sua carta d'identità; la giovialità, senza sconfinare nella eccessiva confidenza, il suo tratto umano; la profondità d'animo il suo stilema. Scriveva con la levità di una carezza. Di quelle che però lasciano il segno. Ad un certo punto non l'ho visto più scrivere. L'ho chiamato una decina di giorni fa per raccontargli la felicità di essere al Dubbio. "Sto in ospedale, sono ricoverato", mi ha detto con quel timbro di voce terribile che chi ha sentito anche solo una volta non può più dimenticare. "Sentiamoci tra qualche giorno", ha soffiato nel microfono. Poi non l'ho chiamato. Non lo sentirò più. Addio Stefano. Ora siamo tutti un po' più soli. Carlo Fusi