E dire che il suo capolavoro del 2016, Hillbilly Elegy, che in Italia è stato tradotto Elegia americana perché fa tanto Philip Roth, era adorato dalle élites progressiste, quelle delle grandi città, abbonate al New York Times e alle riviste letterarie, che in quello squarcio impietoso sul proletariato bianco della rust belt vedevano in filigrana l’ascesa di Donald Trump e del trumpismo trionfante.

Come se James David Vance fosse “uno di loro”, un eroico infiltrato nel cuore nero dell’America, miserrimo e degradato. Ma era solo un transfert, sociologia spocchiosa e militante, come al solito, non ci avevano capito nulla. Hillbilly Elegy è un romanzo potente, che parla di disuguaglianza sociale, che fa a pezzi il sogno americano, la filastrocca ipocrita del paese delle opportunità.

E che punta il dito proprio contro di loro, i diplomati wasp delle “metropoli costiere”, la classe dirigente che muove i fili del l’economia e della cultura, la sinistra in senso lato, che ha dimenticato le classi popolari colpite dalla crisi economica per dedicarsi a spassosi giochini linguistici e battaglie elitarie.

E che soprattutto ha spalancato autostrade a una destra tutta nuova di cui nessuno aveva previsto l’avvento e che da quasi un decennio è protagonista assoluta, begli Usa come nel resto dell’Occidente. In fondo Vance ne è un po’ l’interprete e il profeta, perché viene proprio da quel mondo slabbrato e senza futuro, è uno che il futuro ha dovuto costruirselo letteralmente con le proprie mani, uno che davvero si è fatto da solo, unico diplomato nella storia della sua famiglia.

Madre eroinomane che non avrebbe «mai voluto conoscere», padre alcolizzato e sempre fuori casa, è stato cresciuto da nonna Mamaw una donna arcigna e intelligentissima che aveva il carisma delle montagne e ha sempre creduto nel suo talento: «Una donna straordinaria amava Dio, la parola fuck e possedeva una ventina di pistole». Non si è appoggiato sui magrissimi sussidi federali per condurre la vita marginale di fratelli, cugini e amici che sparavano alle serpi nelle sterpaglie e nei passaggi a livello lungo binari che portano nowhere, non ha annegato l’esistenza nel whisky e nel fentanil in una zona degli Stati Uniti che vanta il triste primato per il consumo e la dipendenza da psicofarmaci.

Una storia di riscatto, però non dolciastra, non hollywoodiana una storia radicalmente diversa perché l’indigeno stavolta non è stato assimilato e quando lo hanno iniziato a invitare nei salotti buoni e nelle kermesse per dirgli quanto fosse bravo, ha incassato i complimenti ma si è tenuto alla larga dall’album di famiglia liberal. Anche perché è sempre stato un conservatore convinto, diplomato in diritto nella prestigiosa università di Yale e servizio militare nel corpo dei marine, un esperienza che ricorda «con fierezza».

E quel mondo artificioso di intellettuali e influencer progressisti e globalizzati, non gli è piaciuto affatto: «Mi considero un emigrato culturale». Ha scritto per qualche tempo sulle colonne del New York Times ed stato editorialista sulla Cnn, ma poi si è allontanato. Nel suo universo mentale sono i deplorevoli vincitori della competizione economica, gli stessi che hanno deindustrializzato il suo midwest, prodotto disoccupazione e alienazione, e che guardano a quell’elettorato che vota in massa per Trump con estremo disprezzo, liquidandoli quasi come subumani, mero white trash.

Non c’è dunque molto da stupirsi nella “deriva” di destra di Vance che oggi, a soli 37 anni, è un senatore del partito repubblicano, il più giovane di sempre (ha battuto nettamente lo sfidante democratico Tim Rian). Quello è in fondo il suo luogo naturale. È vero che qualche anno fa era stato molto duro con il tycoon, definendolo «un uomo che rischia di trascinare la classe operaia americana verso sentieri oscuri» criticando gli eccessi verbali e le sparate xenofobe. Per questo i democratici lo accusano di opportunismo, di aver sfruttato il movimento Maga (Make America great again) al solo scopo di accaparrarsi il seggio sicuro dell’Ohio.

Insomma, avido e amorale come gli hillbilly del suo libro e in queste critiche si scorge tutto il classismo che ha sempre osteggiato, e di cui è anche lui vittima. Ma Vance, che dopo anni di vita agiata a San Francisco è tornato a vivere tra gli amati monti Appalachi dove ha fondato un’associazione per la lotta alle tossicodipendenze, non rinnega le origini, non taglia le radici. Anzi, le rivendica con orgoglio: «Sì, anche se ho frequentato l’università nel mio profondo rimango un hillbilly, mi riconosco in quei milioni di bianchi di origine irlando- scozzese che vivono ai confini della povertà e non hanno terminato gli studi superiori di cui nessuno parla mai».

Trump, che non è un divoratore di romanzi né un talent scout letterario, ha però grande fiuto politico, e ha puntato su di lui, offrendogli il prezioso endorsement alle primarie repubblicane dell’Ohio. Pare che ne abbia apprezzato il look, ma anche il piglio combattivo e poi reclutare tra le sue fila un intellettuale fino a poco tempo fa coccolato e vezzeggiato dai suoi avversari è senza dubbio una mossa intelligente. Vance ha effettivamente cambiato posizione politica (ma non è mai stato vicino ai democratici) e ora sposa, a modo suo, il discorso diretto e brutale dell’alt right d’oltreoceano. Dell’ex presidente ammira «la schiettezza» e il tentativo di parlare alla classe operaia bianca dimenticata da tutti», si dice «disgustato» dall’elite «arrogante e inetta» che governa a Washington.

Ma J. D. Vance detesta gli estremisti, non flirta con gli svitati di Qanon o con il suprematismo bianco, non è un cultore delle armi da fuoco e delle loro lobbies, non ha alcuna simpatia per gli assalitori di Capitol Hill e per i seminatori d’odio, lontano anche dal fondamentalismo religioso e dalle crociate contro l’aborto e i diritti civili: è un intellettuale di destra libero, che crede nella nazione e nella lotta sociale con un linguaggio e delle uscite che, per paradosso, ricordano un socialista bellicoso: «Ogni guerra è una guerra di classe, uno scontro tra dominatori e dominati».

In politica estera è un classico isolazionista, altra tradizione trasversale della politica statunitense, di cui Trump ha ripreso il vessillo dopo gli anni della guerra infinita dell’amministrazione Bush e le disfatte di quella di Barak Obama in Libia e Siria. E sul conflitto in Ucraina ha le idee molto chiare: «Non vedo perché dobbiamo intervenire in una guerra in Europa orientale».

Non sappiamo dove la vita e la politica porteranno James David Vance, l’hillbilly scrittore profeta di una destra senza complessi che non ci sta a farsi demonizzare dagli avversari: «Si può credere nella frontiera e non essere razzisti, si può credere nella patria e non essere razzisti».