Non sarà un cliente facile. Giuseppe Santalucia, neoeletto presidente dell’Anm, è un magistrato che conosce le istituzioni ma anche la puntualità delle parole. «C’è una richiesta di acquisizione degli atti da parte del ministro sulla sentenza di Brescia, sull’uxoricida assolto per infermità mentale? Se il ministro vuole approfondire lo faccia. Poi c’è una sfera di insindacabilità del giudice che involge persino gli errori, e peraltro non c’è motivo di ritenere, in quel caso, che di errore si possa parlare. Ma noi magistrati non ci lasciamo turbare. Andiamo avanti fiduciosi nella qualità intellettuale del nostro lavoro». Ecco, è solo un esempio. Ma Santalucia, consigliere della prima sezione penale della Cassazione, non sarà un presidente dell’Anm che invocherà indignato violazioni dei principi a ogni riforma iperbolica. Dirà quanto va detto. E magari porterà il cosiddetto “sindacato dei giudici” a posizioni anche dure. Ma senza stare troppo ad annunciarle prima.

Presidente Santalucia, ripartiamo dalla sua elezione, dopo un mese e mezzo tormentato: vi siete guardati negli occhi, tra le correnti, e vi siete detti che è un momento troppo difficile per coltivare rancori?

Non parlerei di rancori, ma di differenze, di vedute distanti, anche su quanto avvenuto nell’ultimo anno e mezzo. Si è convenuto di ricomporle in una direzione il più possibile unitaria. Non del tutto unitaria, visto che una componente, Articolo 101 è rimasta fuori dalla giunta.

E già che lei riconosca il vulnus è un atto di realismo.

Pero è giusto ricordare che nel programma si è deliberatamente voluta acquisire una loro precisa richiesta, la valutazione del sorteggio nel sistema di elezione dei togati al Csm. Al più presto, entro i primi dell’anno, istituiremo una commissione di studio sul sistema elettorale e certamente si approfondirà anche l’ipotesi del sorteggio. Dopodiché si deve scegliere, fare sintesi, com’è ovvio, sulla base dei necessari approfondimenti all’esito dei quali, magari, anche i fautori del sorteggio potrebbero rivedere qualche loro radicata convinzione.

Se restano le sanzioni ai giudici che sforano i tempi, l’Anm può arrivare allo sciopero?

Ancora non le so rispondere. Ma ho chiaro cosa siano le sanzioni come rimedio alle situazioni complesse: una via inefficace. Mi spiego: da capo del Legislativo al ministero della Giustizia mi sono impegnato per allontanare il più possibile i rischi di una medicina difensiva, che sarebbe stata conseguenza di norme troppo punitive. Alla stessa maniera giudici e pm troverebbero il modo di mettersi al riparo dalle sanzioni attraverso un approccio burocratico.

La giustizia difensiva?

Sì, la conseguenza sarebbe analoga a quanto poteva avvenire in campo sanitario. In ogni caso io non rifiuto alcuna ipotesi a priori. Credo solo che il nostro sistema sia incompatibile con le sanzioni legate ai tempi. Abbiamo norme, garanzie e contrappesi tali da impedire al giudice l’effettivo e costante controllo del gioco, come forse si vede nei film sulla giustizia americana. Ci sono facoltà attribuite alle parti che possono sottrarre del tutto al giudice la gestione dei tempi di un processo. Quindi sanzionare un magistrato per il mancato rispetto delle scadenze è semplicemente una previsione fuori sistema.

Urla a ogni sentenza meno dura di quanto atteso dall’opinione pubblica. Linciaggio dei gip che negano misure cautelari. Come se ne esce?

Intanto siamo nella società dominata dai media, immersi in un contesto che assegna all’informazione un ruolo enorme, mai visto in passato. C’è la spettacolarizzazione dell’evento, anche di quello giudiziario, e i giornali, per esempio, la assecondano in virtù della logica di mercato. Ciò detto, noi magistrati siamo forti dello spessore culturale di ciò che produciamo. Dobbiamo affidarci alla nostra coscienza e un po’ infischiarcene delle urla.

La cosa vi accomuna agli avvocati minacciati di morte se difendono chi è accusato dei reati più odiosi.

Situazioni assurde, ma tutti gli attori del processo, magistrati e avvocati, sanno certamente essere più forti delle intimidazioni. Grazie alla consapevolezza del ruolo. Facciamo un mestiere appassionante e difficile, a volte molto difficile.

Il ministro Bonafede acquisirà gli atti del processo di Brescia in cui un uxoricida 80enne è stato assolto per infermità: rischia di diventare una dissuasione per i magistrati che si trovassero a giudicare casi simili in futuro?

Guardi, il ministro della Giustizia è titolare dell’azione disciplinare. Può decidere di acquisire gli atti. Quando si prospettano ispezioni, può darsi che si generi ansia. Ma sa, se il ministro vuole approfondire lo faccia pure. Credo di poter fare affidamento sui limiti, anche costituzionali, dell’azione disciplinare più che essere preoccupato per l’acquisizione di informazioni. Anche perché quei limiti implicano l’insindacabilità persino degli errori, se si è nello spazio di autonomia valutativa del giudice.

Anche in questi casi, insomma, non ci si lascia troppo turbare, giusto?

Siamo forti della consapevolezza del ruolo: le critiche sono inevitabili, i controlli pure. La sola cosa da cui ci guardiamo sono le azioni avventurose, e ovviamente non è questo il caso.

A proposito: la cosiddetta degenerazione del Csm a nominificio dipende anche dalla caduta di tensione morale seguita alla fine del berlusconismo? Svanito il grande nemico, i magistrati hanno ripiegato sulle ambizioni private?

È un’analisi che in parte condivido. Nel senso che certamente gli anni del berlusconismo sono stati segnati da una tensione ideale legata proprio ai tentativi più o meno maldestri di invadere l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati. Ma adesso il carrierismo è conseguenza non tanto di un contesto politico differente, quanto della frustrazione per un lavoro che si è burocratizzato.

A cosa si riferisce?

A un quadro che annovera leggi sbagliate, carichi di lavoro non calibrati, risposte di giustizia che arrivano tardi, strutture amministrative non adeguate al lavoro da assolvere: il tutto genera nei magistrati un senso di ineffettività, di dispersione. Da qui la perdita di tensione sul lavoro e il tentativo di compensarla con altro, con le promozioni, con quella competizione anomala per ottenere gratificazioni di carriera. E pensare che negli anni Ottanta tutti avevamo il mito di certi sostituti procuratori che sfidavano il pericolo per la vita pur di indagare sul terrorismo. I procuratori capo erano invisibili.

Palamara rischia di essere il capro espiatorio di una prassi diffusa?

La risposta è complessa perché ci sono due tenenze da cui mi sento distante. L’eccesso di ansia punitiva da cui si è partiti e una certa inclinazione alla pietà, a considerare il collega come una vittima, che si è imposta, di contro, dopo la sentenza. Conosco Luca Palamara, e certamente si difenderà, deve vedersi riconosciute tutte le garanzie, i diritti e gli stadi di accertamento. Un esame equo. Ma il così facevan tutti non può essere invocata quale scusante. Non si tratta né di infierire né di perdonare, ma di misura. Quella cosa che si chiama, appunto, giustizia.