«Compito di tutti i cittadini è fare democrazia. Mimmo Lucano ha fatto democrazia». Gianni Cuperlo racchiude in una citazione del filosofo Salvatore Veca, scomparso ieri, il senso della manifestazione che giovedì pomeriggio ha raccolto esponenti del mondo della politica, della cultura e gente comune in piazza Montecitorio, a difesa dell’ex sindaco di Riace, condannato a 13 anni e due mesi per peculato, associazione a delinquere finalizzata alla truffa e abuso d’ufficio. “Modello Mimmo, l’abuso di umanità non è reato”, questo il titolo dell’evento organizzato da Eugenio Mazzarella, Luigi Manconi, Riccardo Magi e Sandro Veronesi e che da atto di protesta si è tradotto in gesto concreto, con una raccolta fondi per aiutare l’ex sindaco e gli altri condannati a sostenere il peso economico del risarcimento richiesto. Soldi che, in caso di assoluzione, saranno invece destinati a progetti di accoglienza in quello stesso territorio, per ribadire la bontà del «modello Mimmo». A supervisionare l’utilizzo di questi fondi sarà un Comitato di Garanti composto da Marco Tarquinio, Armando Spataro, Gherardo Colombo, Cesare Manzitti e Cesare Fragassi. Per tutti i manifestanti, che hanno sfilato tra bandiere rosse e cartelloni in difesa del “curdo”, il senso di quella sentenza non è stato punire un reato, bensì un modo di fare accoglienza, che pure è rimasto fuori, almeno in teoria, dalle pene comminate. «Una sentenza didattica - secondo Mazzarella -, non tanto contro il reo, ma contro un modello di accoglienza che il presunto reo aveva proposto. Ed era quello che bisognava stangare. Questo è diventato il punto di intollerabilità che ci ha portati a mettere su qualcosa. Perché questo è un uomo che è caduto e va aiutato». A spiegare il punto di vista della piazza è Manconi, parlando di «sconcerto e scandalo» di fronte ad una sentenza «eccessiva, sproporzionata e abnorme» nella pena inflitta a «Lucano e ai suoi sodali», interpretata come «la volontà di sanzionare penalmente un’idea di accoglienza, un’idea di politica per l’immigrazione che consideriamo all’opposto intelligente e razionale». Un timore che si annida nell’accusa di associazione a delinquere, che per l’ex senatore dem nasconderebbe il rischio di trasformare iniziative politiche e civiche in fattispecie penale. A impensierire è infatti anche la decisione di negare agli imputati le attenuanti generiche, «un’ulteriore mortificazione che sembra parlarci di un accanimento terapeutico». Per Manconi si tratta di una sentenza politica, o meglio «ideologica», in quanto «trasmette una concezione, un sistema di idee che sembra voler dire che l’unica forma di politica per l’immigrazione è quella istituzionale che è spesso chiusa, ottusa e autoritaria e che invece un’idea di accoglienza fondata su strategie di inclusione, di relazione con i residenti, di convivenza pacifica tra questi e i nuovi arrivati sia da respingere». Un enorme passo indietro nelle politiche dell’accoglienza che rischia di trasformarsi in un atto d’accusa nei confronti di chi non si limita ad usare i fondi per vitto e alloggio ma aspira a forme di integrazione, fondate «sulla rivitalizzazione di borghi avviati alla decadenza, alla desertificazione». Scendere in piazza è stata, dunque, «una reazione di ordine morale». E che di sentenza dubbia si tratta lo si evince, secondo Manconi, anche dalla divisione interna al mondo della magistratura. Una buona notizia, ha sottolineato, «perché una magistratura che sia autoreferenziale, bloccata e chiusa in se stessa rischia di appesantire ancor più la crisi in cui si trova. Finalmente è venuto fuori un serio dibattito che contrappone idee diverse - ha concluso -. Personalmente ho avuto modo di sentire numerosi magistrati che hanno critiche da fare assai dure nei confronti di questa sentenza. E credo sia un fatto utile». Lo sgomento, ha dichiarato Riccardo Magi, presidente di +Europa, «è tanto più forte quanto più forte è il senso delle istituzioni». Al di là dei motivi tecnici, la sentenza sarebbe infatti da assimilare «alla profonda strumentalizzazione ideologica che in questi anni c’è stata sul tema dell’immigrazione». E, dunque, alla difficoltà del Paese «a guardare questo tema nella sua complessità e provare a modificare delle norme, a riconoscere che è necessario superare la legge Bossi-Fini, che va consentito agli stranieri di regolarizzarsi, che va consentito ai cittadini stranieri di fare un ingresso legale nel nostro paese alla ricerca di lavoro». Insomma, una responsabilità politica c’è e sta nell’incapacità di affrontare seriamente un tema gestito sempre usando l’etichetta dell’emergenza, dell’invasione, smentita all’atto pratico dai fatti e dai numeri concreti. Ciò che serve, dunque, è «trattare questo tema politicamente, in modo orientato non solo ai principi della Costituzione - ha concluso -, ma anche al buon senso, la ragionevolezza, alla convenzione. In quella sentenza vedo la stessa ottusità ideologica che ho visto nel dibattito che c’è stato nel Paese su queste questioni».