Il detenuto al carcere di Viterbo di origini indiane che con uno sgabello ha ucciso il suo compagno di cella per futili motivi è lo stesso che, a febbraio, nel carcere di Civitavecchia, aveva massacrato di botte – sempre con uno sgabello – un altro detenuto in attesa di giudizio. Parliamo, quindi, di una tragedia annunciata. Il caso di Civitavecchia è stato sollevato a febbraio da Il Dubbio e il garante regionale dei diritti dei detenuti Stefano Anastasìa ha confermato che si tratta dello stesso aggressore. La vittima dell’aggressione a Civitavecchia è un detenuto in custodia cautelare. A febbraio uno dei collaboratori dello studio dell’avvocato Roberto Vigna è andato a fare un colloquio con l'assistito, ma la scena che si è ritrovato davanti agli occhi è stata scioccante: l'uomo si presentava con indosso un collare ortopedico, plurime ecchimosi di colore viola intenso e escoriazioni in tutto il corpo, una ferita in testa nella quale pare siano stati applicati 5 punti di sutura, oltreché visibilmente stravolto. Cosa gli era accaduto? La settimana precedente era stato picchiato dal compagno di cella appena era rientrato dal passeggio. Gli ha scaraventato contro lo sgabello di legno posto all'interno della cella, per poi saltargli addosso mentre era caduto a terra per il colpo subito e ha continuato a riempirlo di calci, pugni e graffi sino all'intervento dell'agente di polizia penitenziaria che a sua volta è stato aggredito del detenuto.

Eppure l'aggressore – un indiano accusato di tentato omicidio - già era stato segnalato dall'uomo, in quanto mostrava fin da subito segnali di squilibrio. Appena l'hanno messo in cella, dava testate al muro, lo fissava e urlava. Quando è accaduto il pestaggio non si è avuta alcuna comunicazione ufficiale da parte delle autorità alle quali lo stesso è affidato in custodia. Grazie ad una chiamata anonima effettuata dal carcere, l'avvocato si è allarmato ed è andato a trovare il suo assistito. Senza quella chiamata, nessuno se ne sarebbe accorto visto che non era in programma alcuna visita.

L’indiano, con evidenti problemi psichiatrici, è stato quindi trasferito al carcere di Viterbo e messo in cella con un altro detenuto, un 61 enne che tra l’altro era un senza fissa dimora, arrestato per non aver voluto mostrare i documenti ad un carabiniere e rinchiuso con l’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale. Da qui la tragedia. Venerdì sera, per un accendino, l’indiano ha colpito il suo compagno di cella con lo sgabello. La morte è stato dichiarata alle 3 della scorsa notte all'ospedale Belcolle di Viterbo.

Il garante regionale Stefano Anastasìa, spiega a Il Dubbio che il detenuto, appena è arrivato al carcere di Viterbo, è stato per un piccolo periodo in isolamento perché era noto l’episodio dell’aggressione avvenuta a Civitavecchia. «Il problema da valutare – spiega Anastasìa - è il perché e il quando è stato messo in cella con quell’altro detenuto». Nel frattempo il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini ha fatto sapere che ci saranno degli accertamenti.

«Ovviamente – sottolinea il garante Anastasìa - occorrerà valutare per quale ragione un detenuto con un precedente del genere sia stato valutato idoneo per coabitare, soprattutto di notte, nel blindo con un’altra persona, tra l’altro il più mite di tutti i detenuti». Si trattava infatti, come detto, di un barbone di Viterbo, arrestato per resistenza a pubblico ufficiale.

Il Garante osserva che la storia fa emergere due problematiche. «Una – spiega Anastasìa -, riguarda la persona morta, per cui il carcere continua ad essere la destinazione di quelli che sono privi di sistemazione sociale, infatti ho compreso che il grado di offensività della vittima era pari a zero e che stava in carcere più per una condizione di irregolarità sociale che non per pericolosità».

Il secondo problema è quello che attiene alla persona che ha realizzato l’omicidio «la quale aveva quasi certamente un problema di natura psichiatrica – osserva il garante Anastasìa -, tant’è che era anche seguito dai servizi del carcere, ma la cui aggressività, manifestatasi già a Civitavecchia, poneva il problema della qualificazione dell’offerta sanitaria per la salute mentale in carcere». Del resto, fa notare sempre il Garante del Lazio, «non possiamo dimenticarci che la riforma dell’ordinamento penitenziario, approvato a ottobre, cancella ogni alternativa in materia e con sé tutte le misure possibili per i malati di mente, che si sono resi autori di reato». Alla domanda de Il Dubbio, se una persona con questi precedenti di aggressività poteva essere messa in carcere in cella con gli altri detenuti, il garante Stefano Anastasìa risponde: «Non era necessario l’isolamento, quello che si conosce di tipo disciplinare, ma probabilmente sarebbe stato sufficiente evitare che il detenuto in questione pernottasse con gli altri, perché poi nelle situazioni comuni di socialità è tutto più gestibile». Per il Garante il problema è stato «costringerlo dietro il blindo chiuso con un’altra persona».