All’origine dell’ipotesi accusatoria dei magistrati fiorentini contro i membri del Cda di Open c’è una delle fattispecie penali più scivolose tra quelle introdotte nel recente passato. Il reato, rubricato all’articolo 346 bis del codice penale come “traffico di influenze illecite”, è stato previsto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, passata alle cronache come legge Severino, dal nome della ministra della Giustizia dell’allora governo Monti.

L’articolo punisce chi, «sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere a sé o ad altri denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio».

Per esempio, è il caso del cosiddetto “faccendiere” che, sfruttando in modo illecito la sua conoscenza con un pubblico ufficiale, si faccia promettere o dare del denaro da un privato con la promessa di intercedere illecitamente in favore del privato stesso. Si tratta di un reato con natura finalistica, che punta alla tutela anticipatoria dalle attività preparatorie della corruzione, perché punisce l’intermediario prima ancora che si perfezioni un accordo corruttivo.

Sin dalla sua introduzione, il reato è stato oggetto di critiche, a causa dell’eccessiva indeterminatezza del confine tra traffico di influenze illecite e attività lecita di lobbying ( volta a “influenzare” un politico nelle sue scelte legislative). Non solo. A complicare ulteriormente l’applicazione della fattispecie è il fatto che essa esclude la presenza di corruzione ( in quel caso, il reato di traffico di influenze illecite viene sussunto) e dunque ad essere punita è la promessa, poiché il denaro o l’utilità consegnata al mediatore perché corrompa il funzionario pubblico non deve essere stata effettivamente consegnata e nemmeno promessa.

«E’ un reato dalla consistenza criminosa inafferrabile», è stata la definizione data dal professore di Diritto penale all’Università Sant’Anna di Pisa, Tullio Padovani. La ragione è che la condotta del mediatore, per essere penalmente illecita, deve essere svolta in maniera “indebita”. Tuttavia nel nostro ordinamento manca una legge che chiarisca nel dettaglio cosa sia la mediazione ( compresa la sua variante illegale).

Dunque, lascia enormi spazi di discrezionalità al magistrato. Inoltre, un secondo elemento di indeterminatezza è dato dal fatto che, per non sfociare nella fattispecie corruttiva, il denaro fornito al mediatore non deve essere consegnato al pubblico ufficiale. Si tratta dunque di una attività solo preparatoria e la finalità corruttiva da stabilire è di fatto solo nella mente del mediatore, dunque molto difficile da dimostrare.

Proprio a causa di questa indefinitezza, il reato di traffico di influenze illecite ha trovato scarso utilizzo.

Lo è stato, tuttavia, in alcuni casi giudiziari molto noti perché hanno coinvolto la politica. E’ stato il caso dell’impreditore Gianluca Gemelli, indagato per traffico di influenze illecite per aver fatto pressione sulla compagna, la ministra Federica Guidi ( poi dimessasi), affiché inserisse nella legge di Stabilità del 2015 un emendamento che sbloccava il progetto petrolifero Tempa Rossa, in cambio di un subappalto.

Più recentemente, anche Tiziano Renzi è stato indagato per lo stesso reato, perché un suo ex socio Luigi Dagostino gli aveva chiesto di fissare un appuntamento per il pm Antonio Savasta ( titolare di un’inchiesta su Dagostino per false fatture) con l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Luca Lotti.

Nel caso Open, ad essere indagato per traffico di influenze illecite è l’avvocato Alberto Bianchi, vicino a Matteo Renzi ed ex presidente della Fondazione. Al vaglio degli inquirenti ci sarebbe un versamento di denaro a Open di circa 700mila euro, denaro che Bianchi avrebbe incassato dalla holding Toto e che l’avvocato ha giustificato come compenso professionale.