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Due no per rafforzare il ragionevole dubbio che l'impianto su cui si fonda l'inchiesta Mafia Capitale abbia i piedi d'argilla. A pronunciarli sono stati due ex ufficiali dei carabinieri del Ros, chiamati a deporre dalla difesa di Massimo Carminati per spiegare l'origine dell'inchiesta che ha riguardato l'ex esponente dei Nar e della Banda della Magliana.Prima il colonnello Massimiliano Macilenti, ex ufficiale dei carabinieri del Ros oggi in servizio alla Presidenza del Consiglio dei ministri: il militare ha raccontato l'evoluzione dell'indagine iniziata nel 2010, che riguardava l'ipotesi di appartenenza di Carminati ad un'associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio. E, alla domanda se fossero emersi legami dell'ex Nar con i servizi segreti, la risposta è stata «Non mi risulta proprio». Non solo, nonostante le ripetute sollecitazioni della difesa, il militare non ha indicato sulla base di quali fatti concreti siano state disposte le intercettazioni a carico di Carminati. «Ha accennato a voci confidenziali, ma la sensazione è che la tecnica investigativa sia stata quella di intercettare Carminati e la cerchia che gli stava attorno, alla ricerca di eventuali reati. Non a caso il primo nome dato all'inchiesta non era "Mafia Capitale", ma "Catena"», ha spiegato l'avvocato Goisuè Naso, difensore dell'ex Nar.Poi il maggiore Francesco De Lellis, altro ex ufficiale del Ros, il cui reparto aveva aveva indagato su Carminati nel 2013 per l'ipotesi di corruzione in appalti pubblici. Secondo il militare, Carminati «era di fatto un socio occulto di Salvatore Buzzi, i due si dividevano tutto al 50% e quando parlavano tra di loro non facevano alcun distinguo tra le varie coop». A fronte di questo, però, alla domanda se fossero state documentate condotte che lasciavano ipotizzare matrice mafiosa, De Lellis ha risposto no. «Non ho mai riscontrato episodi di stampo mafioso commessi in danno della pubblica amministrazione, non ho mai segnalato alla Procura di Roma che Carminati utilizzasse metodi intimidatori per ottenere appalti né che minacciasse gli altri concorrenti alle gare». Tanto che, nell'ultima informativa firmata da De Lellis nel luglio 2014 (l'inchiesta si è chiusa nel novembre dello stesso anno), non vi era alcun riferimento all'associazione mafiosa ne alle sue aggravanti. Poi, però, le indagini sono state prese in carico da un altro organo interno ai Ros e le risultanze sono confluite in una nuova ipotesi dei fatti, che ipotizzava del 416 bis.Due no, quelli di Macilenti e De Lellis, che pesano sull'impianto accusatorio della Procura e fanno vacillare il teorema di Mafia Capitale, minando le fondamenta su cui si regge l'imputazione di 416 bis, l'associazione di stampo mafioso. «Come difese puntiamo a ricostruire la genesi dell'indagine condotta contro Carminati, per dimostrare come il tutto si riduca a ordinari fatti di corruzione, smontando l'impalcatura della "pentecoste mafiosa" costruita dalla Procura», ha spiegato l'avvocato Cataldo Intrieri, difensore del vicepresidente della coop "29 Giugno", Carlo Maria Guarany (accusato di 416 bis e corruzione aggravata).Le due deposizioni rese ieri in udienza - che si è svolta in un clima molto teso, con schermaglie tra accusa e difesa - hanno dunque cementato proprio l'ipotesi che, nelle informative dei Ros, non fossero contenuti fatti utili a sostenere un'inchiesta fondata sul 416 bis.Ricostruendo i primi passi dell'indagine, risulta infatti come intorno alla figura di Carminati si siano dipanati diversi filoni di indagine: uno, poi accantonato, che riguardava l'associazione a delinquere finalizzata all'eversione, un secondo che riguardava attività di riciclaggio (seguito dal reparto Anticrimine dei Ros, di cui faceva parte Macilenti) e un terzo relativo agli appalti e alla corruzione delle cooperative (seguito dal II Reparto dei Ros, di cui faceva parte invece De Lellis).A partire da queste indagini l'allora procuratore aggiunto di Roma Pietro Saviotti (scomparso nel gennaio 2012) aveva aperto l'inchiesta poi finita sulla scrivania del nuovo procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone. Sarebbe stato quest'ultimo a teorizzare il sistema mafioso intorno a Buzzi e Carminati, ipotizzando il sistema di Mafia Capitale.Ecco dunque la sfida della difesa: instillare nella Corte il ragionevole dubbio che quello celebrato nell'aula bunker di Rebibbia sia un ordinario processo per corruzione, rivestito di una "fascinazione mafiosa" costruita ad arte della Procura e non sostenuta dalle risultanze istruttorie.«Quello contro Carminati è un processetto - ha commentato al termine dell'udienza l'avvocato Naso - Se dovessi esprimere un giudizio tecnico sugli esiti non avrei dubbi nell'essere fiducioso, perché la consistenza dell'accusa si è dissolta come neve al sole già all'esito delle prime deposizioni». Però, ha aggiunto il difensore, «questo non è un processo normale, perché la Procura si è molto esposta. Se il tribunale si farà prendere da esigenze corporative, dunque, temo che sarà inevitabile dover immaginare un ricorso in Appello».