Prima la giudice Carla Raineri, che ha ballato per una sola estate, anzi meno, da capo di gabinetto del sindaco di Roma. Ora il pm contabile Raffaele De Dominicis, che Virginia Raggi ha appena indicato come assessore al Bilancio. Due indizi non faranno una prova ma indicano una predilezione: i cinquestelle tendono ad affidare innanzitutto a magistrati gli incarichi esterni nelle amministrazioni. Cosa avverrebbe il giorno in cui un grillino fosse chiamato a guidare il governo nazionale? E soprattutto, quali limiti normativi esistono all'attività politica delle toghe? Al momento non è alle viste, in materia, un provvedimento draconiano. C'è una legge approvata in Senato e ora all'esame della commissione Giustizia della Camera (potrebbe essere votata a ottobre), che amplia un limite temporale già previsto: giudici e pm che volessero candidarsi in Parlamento dovrebbero farlo in un collegio diverso da quello in cui, negli ultimi due anni, hanno esercitato le funzioni giurisdizionali. Si tratta dell'inasprimento della norma contenuta nel Testo unico delle leggi elettorali del 1957: tale prescrizione, tuttora vigente, prevede sì quel limite ma solo relativamente agli ultimi 6 mesi. Nella legge ora in discussione a Montecitorio è fissato anche un impedimento analogo in tema di rientro in ruolo: nei due anni successivi al mandato parlamentare il magistrato non potrà esercitare la funzione nello stesso distretto in cui era stato eletto. Spingersi oltre? Lo chiede proprio una parte della magistratura. Lo ha fatto, dalle colonne del Dubbio, un ex presidente dell'Anm, Giuseppe Cascini, oggi sostituto procuratore a Roma e titolare delle indagini su Mafia Capitale: il pm sostiene che un magistrato, una volta entrato in politica, deve scordarsi la toga. «Bisogna avere il coraggio di dire che si tratta di una scelta senza ritorno», secondo Cascini. Coraggio che almeno in parte il Csm ha mostrato di avere. In una delibera approvata a Palazzo dei Marescialli il 21 ottobre 2015, si chiedeva non solo di inasprire i periodi "cuscinetto" per giudici e pm che passano dalla toga alla politica e viceversa, ma addirittura di dirottare verso altri ranghi della pubblica amministrazione quei magistrati rimasti in Parlamento, alla Regione o in altro ente per un periodo particolarmente lungo. Non proprio la preclusione assoluta invocata da Cascini, ma qualcosa di assai simile. In comune tra le due ipotesi c'è la conservazione dello stipendio: quello sarebbe in ogni caso in salvo. A soluzioni così spinte il Parlamento non sembra voler arrivare. «Oggi i magistrati tra Camera e Senato sono cinque in tutto», osserva il relatore della legge all'esame di Montecitorio, Walter Verini, «ovvero Palma, Casson, Finocchiaro, Ferranti e Dambruoso». Pochi in effetti.«Soprattutto rispetto agli avvocati, che sono circa un centinaio», dice Verini. «Il contributo professionale dei magistrati è un arricchimento, pensiamo a quanto è importante il dottor Dambruoso per i provvedimenti in materia di terrorismo». Osservazioni difficilmente confutabili. Tutto sta a capire se in un eventuale futuro governo a cinquestelle il ricorso alle toghe non diventerà assai più massiccio.