I momenti drammatici sconsigliano troppe parole. Eppure, noi avvocati, non abbiamo che quelle. Abbiamo allestito, del resto, una maratona oratoria per mezzo di esse e, al contempo, per dar loro lo spazio che meritano.

Noi vorremmo che le nostre parole, uscendo dai labirinti delle nostre menti – a volte forse non troppo chiari nei percorsi – e dagli elitari cenacoli pseudo- culturali nei quali ci ostiniamo a confinarle, prendessero aria e arrivassero all’orecchio e al cuore di chi, del carcere, non sa nulla, se non quel poco che pennivendoli e venditori di fumo hanno provato a raccontare.

La narrazione di una cosa, le parole che intorno a una cosa possono esser dette, partecipa essa stessa della sostanza della cosa; ecco perché parlare di carcere significa edificare, nella mente di ciascuno che ascolta, l’idea del carcere.

Questa opera di racconto, che qui e adesso abbiamo deciso di provare a portare a compimento, è però costantemente contrastata dal vento di altre parole, uguali e contrarie; parole che disegnano il reo come se fosse il reato e il carcere come l’ultimo baluardo, eretto a protezione dei giusti e dei buoni dall’opera dei delinquenti che saranno dissuasi dal mantenere le proprie condotte delittuose. E questo vento a contrasto però, queste parole sono false e convincenti.

Sono false, perché l’effetto dissuasivo della pena come punizione è una chimera, un gioco a bilancia per bambini: ti do tanto, mi dai tanto e siamo pari! Se così fosse, paesi come l’America, dove alligna ancora la pena di morte, sarebbero liberi dal reato.

Ma sono convincenti, perché hanno la caratteristica di parlare alla pancia di chi ascolta, di vellicare istinti ancestrali, alimentati da quel diffuso e non sempre giustificato senso di disinteresse e di frustrazione che ha colpito ormai da tempo la nostra collettività. “Buttare la chiave” e “lasciarli marcire in galera” sono del resto concetti intuitivi che si distanziano dalla giustizia e dal raziocinio, ma che si comprendono con immediatezza.

Ciò che le nostre parole provano invece a raccontare è qualcosa di più complesso, di meno intuitivo, di umano insomma. Noi vorremmo raccontare la verità del carcere. Noi vorremmo raccontare che le donne e gli uomini che vi sono reclusi non sono il reato che hanno commesso. Noi vorremmo raccontare che costoro non sono i numeri ai quali l’apparato governativo vorrebbe ridurli, ma restano, anche quando hanno commesso reati e persino quando i reati sono gravi, donne e uomini che hanno figli, amici, genitori, fratelli che soffrono con e per loro. Noi vorremmo insomma raccontare cosa davvero significhi vivere in una cella, ammucchiati come animali e privati della dignità e di qualsiasi prospettiva di futuro.

Un uomo senza la prospettiva di futuro è un uomo morto: i 52 nomi snocciolati da inizio anno, a tacere degli agenti di custodia e delle centinaia di tentativi sventati, e più ancora i 1779 morti in carcere per mano propria dal 1992 ad oggi, raccontano bene la tragedia e dicono meglio di ogni altra parola che il fetore della morte non è più il disegno letterario di una ideale perdita di orizzonte, ma la scelta concreta di chi ha preferito smettere di respirare che continuare a farlo in quella maniera.

Ecco, non si trovano le parole – e per noi avvocati è un’ammissione grave – per dire tutto questo in maniera diretta, leale e convincente; mentre si va cianciando di vacuità buone ad imbonire gli stolti e i creduloni, a raccattare voti – o quanto meno a non perderne – centellinando provvedimenti normativi in funzione di tornate elettorali di cui si temono gli esiti.

Questa difficoltà di chiamare le cose con il loro nome, restituendo l’idea autentica della loro essenza, rende vitale per l’intento comunicativo la cella a dimensioni reali che il CNF ha costruito e che abbiamo avuto a fianco durante tutta la maratona affinché ciascuno provasse ad entrarci, soggiornandovi per qualche minuto. Immaginate, pur sapendo che ciò non è vero, di dover trascorrere in un cubicolo di pochi metri quadri e magari in compagnia di altri sventurati, anni interi, senza un progetto, senza un affetto, senza un abbraccio, senza poterne uscire se non per consolare un coniuge o un figlio in lacrime, stringere la mano di un avvocato, camminare in tondo come nella Ronda di Van Gogh o, più terra terra, come criceti senza dignità all’interno di una ruota.

Due sole parole forse merita una storia così ignobile: la vergogna, che invade – e invada! – quotidianamente, come un sottile miasma, i nostri pensieri e la nostra silenziosa ignavia di fronte al disastro umano a cui assistiamo; il perdono, che dovremmo tutti insieme domandare contriti a quelli che sono andati, a quelli che inevitabilmente lo faranno e alle loro famiglie; perdono a nome nostro, ma pure di tutti quelli che hanno chiuso cervello e cuore oppure, più semplicemente, dispongono dell’uno e dell’altro in misura assai limitata.

Fate, facciamo qualcosa perché il tempo è scaduto e non ci saranno esimenti per la nostra colpa.