La battuta c’è tutta: «Iniziano le mie prigioni», si lascia scappare uno dei 7 giudici popolari un attimo prima di chiudersi in camera di consiglio. Ecco: ma quanto durerà? «Quattro giorni è la prognosi più attendibile», sussurra uno dei difensori. Quindi il giorno della verità potrebbe essere il 19 aprile, al massimo il 20 aprile 2018. Quel giorno dovrebbe essere pronunciata la sentenza del processo “trattativa”. Sarà una camera di consiglio faticosa e suggestiva: finirà entro la settimana o il viaggio a ritroso nel tempo potrebbe avvitarsi su stesso, come in un film di Robert Zemeckis? C’è un’aria strana, nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Non solo perché l’ultima delle 210 udienze celebrate in 4 anni– 4 di dibattimento ( tutto ebbe inizio il 27 maggio 2013) ha il tono esasperato delle scene madri. Nicola Mancino, tra gli imputati, accusato di falsa testimonianza, spiega che sul suo incontro con Borsellino «sono state avanzate illazioni per distruggere la mia immagine».

Ipubblici ministeri, anzi uno, Vittorio Teresi, dei due presenti ieri in aula ( l’altro è Roberto Tartaglia) sui quattro rimasti in servizio ( Nino Di Matteo e Francesco Del Bene non hanno ottenuto l’“applicazione” dalla Dna dove intanto sono andati a lavorare) si lamenta per le espressioni «estreme e inopportunamente polemiche da parte delle difese che hanno travalicato la dialettica processuale» e fa capire che anche per questo, «abbiamo deciso di rinunciare alle repliche». Uno dei legali, il difensore di Mario Mori, Basilio Milo, che si scusa con lo stesso magistrato della Procura di Palermo. Il presidente della Corte d’assise Alfredo Montalto che chiama infine la camera di consiglio e vi si rinchiude con i 7 componenti laici del collegio e la giudice a latere Stefania Brambille.

Ma il tratto drammatico, da sospensione della storia, è nell’ombra che non compare tra i 9 imputati sopravvissuti ( due, Totò Riina e Bernardo Provenzano, nel frattempo sono morti, uno in realtà ha visto stralciata da tempo la propria posizione ed è Calogero Mannino). Quell’ombra, nella visione dei pm, deve fattezze simili a Silvio Berlusconi. È a lui o non è a lui, che la Procura pensa quando, nel corso della requisitoria ( una lunga staffetta in 8 udienze tra i 4 del pool) cala sulla scena il fantasma di «un comprimario occulto, una intelligenza esterna che premeva per la linea della distensione» ? Così pare. Se no non si spiegherebbe per quale ragione, fra i quattro ex rapavere presentanti delle istituzioni alla sbarra, compaia, con gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, anche Marcello Dell’Utri. Cosa c’entra Dell’Utri, che sarebbe arrivato in Parlamento solo nel 1994, quando ormai Totò Riina era da tempo in carcere e le stragi cessate? Quale sarebbe la sua funzione, nello scenario immaginato dalla Procura, se non quella di fare da tramite con un futuro premier già sicuro di vincere le elezioni prima ancora di scendere in campo, ovvero il Cavaliere? E perché mai, se Berlusconi non fosse l’imputato virtuale di questo processo “Stato– mafia”, in limine mortis la Procura stessa ha preteso e ottenuto di includere tra gli atti anche le trascrizioni dei celebri dialoghi tra il boss Giuseppe Graviano e il suo compagno d’ora d’aria Umberto Adinolfi? In quelle conversazioni peripatetiche, il nome di Berlusconi ricorre eccome, anche se il difensore di Dell’Utri, Giuseppe Di Peri, ha contestato con più di una ragione, non accolta da Montalto, che in alcune frasi chiave il mafioso dicesse davvero “Berlusca”.

Sullo sfondo del decreto di Conso, della revoca e degli annullamenti del 41 bis dell’allora capo del Dap Capriotti, degli esponenti delle istituzioni che, secondo la requisitoria, «hanno ceduto, per paura o incompetenza, illudendosi che una attenuazione del 41 bis potesse far cessare le bombe», sullo sfondo di tutti i segni del presunto cedimento da parte dello Stato, ci sarebbe evidentemente quel «comprimario occulto», che aveva capito tutto: e cioè che avrebbe vinto le elezioni e che nel frattempo serviva la pacificazione tra lo Stato e Cosa nostra.

È il presunto male assoluto fondativo della Seconda Repubblica, la leggenda nera del Cavaliere avanzato tra le ceneri dell’Italia devastata per indirizzarla verso il più scellerato dei patti. Una teoria senza ragione, senza logica, che però richiede un viaggio nel tempo. E infatti quel giudice popolare che si paragona a Silvio Pellico pare si sia portato il trolley, in conclave. Qualcun altra ha pensato al beauty case. E magari davvero si deve decidere non tanto sulla “minaccia a corpo politico dello Stato”, il reato contestato a i tre ufficiali del Ros e a Dell’Utri: ma sulla leggenda nera di cui sopra. E poniamo che da questo conclave, a più di 6 anni dall’inizio delle indagini, Dell’Utri ottenga l’assoluzione, poniamo che la Corte d’assise fra due o tre giorni, smentisca la leggenda nera: siano proprio sicuri che il frantumarsi dell’orribile retropensiero sarebbe irrilevante, rispetto al quadro politico attuale? Se ci si accorgesse che i quattro anni dello “Stato mafia” sono serviti a cancellare la leggenda nera, forse i pm del pool, compreso quell’Antonio Ingroia che se n’è andò in Guatemala un mese dopo l’inizio del processo, avranno reso un incalcolabile servizio alla Nazione. Avranno fatto pulizia della spazzatura tenuta bene o male in circolo da tanti, in questi anni. Dal loro punto di vista avranno fallito. Ma senza accorgersene avranno finalmente fatto giustizia.