Nelle prossime settimane entrerà nel vivo il processo d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. A luglio la Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania, ha deciso per la rinnovazione dibattimentale. E sono numerose le prove ammesse in accordo delle parti, comprese nuove testimonianze tutte finalizzate a completare il quadro.

In estrema sintesi, tali prove serviranno per far luce su alcune lacune oggettive e in alcuni casi saranno decisive. Il calendario è già stato scandito nei suoi tempi. La data che inevitabilmente sarà sotto le lenti d’ingrandimento è quella del 3 ottobre. A testimoniare saranno due big che hanno il tratto comune di aver dato l’avvio alla seconda Repubblica: Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro. Due testimonianze che potrebbero incrinare le motivazioni della sentenza di primo grado.

Perché la testimonianza di Berlusconi è una prova decisiva? Secondo le motivazioni della condanna di primo grado, a partire dal 1994, quando fa il suo ingresso sulla scena politica nazionale Silvio Berlusconi nella veste di presidente del Consiglio, il ruolo di cinghia di trasmissione delle minacce mafiose avrebbe cambiato interprete e sarebbe stato assolto non più dagli ex ros Giuseppe De Donno e Mario Mori, per i quali, quindi, il reato si ritiene consumato nel 1993, bensì da Marcello Dell’Utri che, grazie ai rapporti con Vittorio Mangano, esponente di spicco della mafia siciliana trapiantato in Lombardia, avrebbe alimentato la trattativa. È infatti provato che anche in quel periodo uno dei principali ispiratori di Forza Italia e lo stalliere mafioso si siano incontrati, ma i contenuti estorsivi di quegli incontri sono ricostruiti in sentenza senza prove dirette e senza alcun riscontro della controparte, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio. Ci si ferma a un ragionamento che assomiglierebbe più a una mera congettura che a un’effettiva prova. Quindi Berlusconi sarà ascoltato per riferire quanto a sua conoscenza in ordine alle eventuali minacce di matrice mafiosa pervenute al governo, da lui presieduto fino al 22 dicembre 1994.

DI PIETRO E BORSELLINO

E la testimonianza di Antonio Di Pietro? Come sappiamo, secondo l’accusa, la presunta trattativa Stato- mafia sarebbe stata il motivo dell’accelerazione della strage di via D’Amelio, che portò alla morte di Paolo Borsellino e della sua scorta. Ma c’è un’altra ipotesi, formulata dalla sentenza della Corte d’assise di Catania n. 24/ 2006, del 22 aprile di 13 anni fa, poi confermata in Cassazione, che indica come movente della strage il famoso dossier “mafia e appalti”. Di Pietro è ammesso come teste proprio per i contatti e dialoghi che ebbe con Borsellino prima e dopo la strage di Capaci e su eventuali progetti di indagini coordinate sul filone delle ingerenze mafiose e della corruttela politico- amministrativa nella gestione degli appalti. Anche perché, dato oggettivo, nel dossier “mafia e appalti” comparivano imprese del Nord che erano anche coinvolte nell’inchiesta “Mani pulite”, che l’ex magistrato Di Pietro stava conducendo.

NOTE DATE A FALCONE

In merito alla questione “mafia e appalti”, la Corte d’appello ha ammesso anche diverse prove documentali. A partire dalle annotazioni 96, 97 e 98 - a firma di De Donno - compilate per i magistrati Falcone e Guido Lo Forte relative alle indagini su quel filone. Parliamo di informative che precedettero il dossier generale depositato dai carabinieri del Ros il 20 febbraio 1991, su esplicita richiesta di Falcone, che all’epoca stava passando dalla Procura di Palermo alla direzione degli Affari penali del ministero della Giustizia. A proposito dell’importanza che dette Falcone al dossier, altra prova documentale ammessa è il suo intervento al convegno di studi al Castello Utveggio di Palermo del marzo 1991: la Corte d’appello l’ha ammesso come elemento atto a dimostrare l’importanza attribuita da Falcone alle indagini su “mafia e appalti”. Si, perché proprio durante quel convegno, reperibile nell’archivio di Radio Radicale, Falcone fa esplicito riferimento all’indagine che era ancora in corso, evidenziandone la primaria importanza. Così come sono stati ammessi i verbali delle audizioni al Csm di fine luglio ’ 92 degli allora sostituti procuratori Antonella Consiglio e Luigi Patronaggio. Sono state accolte in accordo delle parti in quanto rappresentative del clima all’interno dell’ufficio inquirente di Palermo dopo le strage di Capaci e via D’Amelio, e delle tensioni generate dal primo esito delle indagini su “mafia e appalti”. Testimoniano la presenza di Borsellino alla riunione del 14 luglio 1992, avvenuto cinque giorni prima della strage, ove emergerebbe che il magistrato avrebbe fatto un solo rilievo e che lo stesso fosse proprio relativo alle indagini scaturite dal dossier.

LE VARIANTI DI BRUSCA

Intanto, il rinnovo dibattimentale del processo d’appello si aprirà il 12 settembre con l’escussione dei pentiti Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca. Quest’ultimo verrà sentito soprattutto in merito alle nuove circostanze emerse dalle dichiarazioni, che egli ha reso all’udienza del processo di primo grado con particolare riferimento al ruolo attribuito a Calogero Mannino nel cosiddetto “aggiustamento” del processo Basile. «Mannino – disse Brusca - era stato cercato da Riina per aiutarlo ad aggiustare qualche processo o qualche altro favore. Tra gli anni ’ 80 e ’ 90 aveva cercato un contatto con lui tramite un tale notaio Ferraro, di Castelvetrano. L'interesse in particolare riguardava il processo Basile». Ma va precisato che su questo punto, l’ex ministro dc era già stato assolto dall’accusa di concorso esterno. E nelle motivazioni della sua assoluzione in primo grado – poi confermata in appello – in merito all’accusa di essere stato il promotore della presunta trattativa, la giudice ricorda che l’oggetto di prova della sua estraneità era «il tentativo di aggiustamento del processo Basile». Ricordiamo che il “caso Basile” riguarda la storia della morte di un coraggioso capitano che già allora era alla caccia dei Corleonesi: storia simbolo dei processi di mafia “aggiustati”.

Ma è sull’attendibilità di Brusca che viene concentrata l’attenzione. Nelle motivazioni della sentenza del 2013, che assolse l’ex Ros Mario Mori e Mario Obinu nel processo clone sulla trattativa, il giudice Mario Fontana puntò il dito contro quei collaboratori di giustizia che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa. In particolare contro Giovanni Brusca «nelle cui dichiarazioni si devono registrare aggiornamenti inediti, seguiti a una nuova inchiesta giudiziaria promossa nei suoi confronti, e svariate oscillazioni, collegate a notizie di stampa relative a pregresse acquisizioni dibattimentali».