L’altro giorno nelle campagne di San Marco in Lamis, provincia di Foggia, la mafia pugliese ha trucidato quattro persone. Due delle vittime forse erano anche loro legate ai clan, le altre due erano due contadini di passaggio, che hanno visto e hanno provato a scappare, ma sono stati inseguiti, raggiunti e scannati sul posto, perché erano testimoni pericolosi. Mi pare che una strage mafiosa di queste dimensioni e di questa ferocia non avvenisse da diversi anni, forse dobbiamo risalire alla mattanza di Duisburg di dieci anni fa per trovare un precedente.

Eppure sulla stampa non ha avuto grande risalto. Guardavo ieri mattina le prime pagine dei giornali più legati all’idea di giornalismo gridato ( e cioè Libero, il Giornale, Il Fatto Quotidiano e La Verità) ma la notizia della strage pugliese non appare. Zero titoli, zero righe. Neppure sulla prima pagina di un giornale di livello intellettuale decisamente superiore, come il manifesto, ci sono titoli né righe. La compagnia dell’antimafia che se ne infischia delle cosche

E sui giornali che invece se ne occupano non ho trovato dichiarazioni di esponenti politici nazionali, o di uno dei capi della commissione parlamentare antimafia. Neanche ho visto interviste a magistrati del settore. Fatto insolito. L’unico che si è occupato della cosa - oltre al ministro Minniti è il Superprocuratore Roberti, e la cosa va a suo merito.

Non mi indigno, perché la bellezza del giornalismo - e della politica, e forse anche della magistratura - è che ciascuno è autorizzato a valutare le notizie come crede. Però mi stupisco un po’. Perché mi pareva che un omicidio plurimo così feroce - al di là di come la si pensi sulla politica, o sulla mafia, o sulla giustizia - fosse degno di essere preso in considerazione dal sistema dell’informazione. E potesse suggerire delle riflessioni, anche importanti, su eventuali novità nel pianeta mafioso.

Tanto più che siamo in pena estate, le notizie mancano e molti giornali, proprio ieri, per trovare un titolo da mettere in prima pagina si sono dovuti occupare di un certo Gianluca Vacchi, che io non ho ancora capito bene chi sia e perché sia famoso, oltre che per una discreta quantità di muscoli e - pare – di milioni.

Però questa situazione mi spinge a due riflessioni serie. Una delle quali riguarda la mafia e l’altra riguarda il giornalismo.

Partiamo dalla mafia. Da molti anni l’intellettualità italiana è attiva sul tema della lotta alla mafia. Per lei è un fiore all’occhiello. L’antimafiosità dell’intellettualità italiana è la prova della sua tempra morale. E schierata compatta dietro ogni iniziativa della magistratura. In particolare lo sono alcuni giornali, e sicuramente – ad esempio – il Fatto è tra questi.

Come mai, invece, sulla strage di Foggia questo disinteresse?

Temo che la spiegazione sia scritta in quel famoso articolo di Leonardo Sciascia, che negli anni ottanta, con una geniale intuizione, segnalò l’esistenza dei «professionisti dell’antimafia». All’inizio questa categoria riguardava un certo numero di persone che combatteva realmente la mafia, e poi faceva della lotta alla mafia uno strumento politico, o di potere, o di carriera. Successivamente si è sviluppata, col tempo, si è trasformata in “compagnia antimafia”, si è allargata a dismisura, ha conquistato la commissione parlamentare ( che si è messa alla sua testa, insieme a un paio di intellettuali doc e qualche giornalista) ed è diventata un luogo dove nessuno sa niente di mafia, nessuno si occupa di combatterla, ma in molti si applicano alla possibilità di usare la categoria dell’antimafia per ragioni di lotta politica e come strumento per manganellare gli avversari. Si è creata una completa scissione e autonomizzazione tra mafia e antimafia. Si è persa ogni connessione. L’antimafia esiste a prescindere dalla mafia e non è molto interessata all’evoluzione della mafia. E’ indipendente.

Così succede che se per caso in un paese del casertano arrestano un assessore e lo accusano di concorso esterno in associazione mafiosa, l’intera compagnia dell’antimafia scatta come un sol uomo, e grida contro quest’assessore, e lo dichiara colpevole, e chiede conto al suo partito e ogni tanto chiede anche le dimissioni del ministro dell’Interno. Non parliamo dell’ipotesi che nella città più grande d’Italia vengano arrestati un po’ di tangentari incalliti e anche loro colpiti col famoso articolo 416bis ( associazione mafiosa), anche se abbastanza presto appare a tutti evidente che la mafia non c’entra nulla. Titoli a nove colonne ( si diceva così una volta) su tutti i giornali per giorni e giorni, riunioni, dichiarazioni, sit- in, flash- mob, fiaccolate e convegni. E molta indignazione su Facebook.

Se poi la mafia, la mafia vera, attuale, vivente, prende un kalasnikov e cosparge di sangue la campagna di Foggia, tutti pensano che sia un piccolo fatto di cronaca nera, da lasciare ai neristi. Perché? Esattamente per la ragione che dicevamo prima. Loro dicono: «Noi siamo l’antimafia, che ci importa a noi della mafia?». L’avete vista, ieri, Rosy Bindi? Macché. Si è occupata recentemente del campionato di calcio, delle tifoserie, di come si fanno i giornali, ha interferito nella compilazione delle liste elettorali, ma una strage mafiosa non sembra materia per la sua commissione.

La seconda riflessione riguarda di striscio la questione mafiosa, ma riguarda il giornalismo. E il modo nel quale sta evolvendo. Sempre più lontano dai fatti, dalle cose che succedono, da quelle che una volta si chiamavano le notizie. E’ attratto da tutt’altro. Il giornalismo è sempre stato un campo di battaglia politica, e lo è in tutto il mondo. Persino negli Stati Uniti, dove forse esiste il giornalismo migliore e più moderno del pianeta, la politica c’entra sempre ed è uno dei campi di azione Da noi però sta avvenendo un completo ribaltamento della struttura del giornalismo. Il giornalismo sta diventando – per un numero sempre crescente di giornali – esclusivamente uno strumento di battaglia politica. E le notizie che non abbiano implicazioni nella battaglia politica sono diventate prive di interesse. Una volta alla riunione di redazione si elencavano prima tutte le notizie, poi si decideva come occuparsene, in quale gerarchia ordinarle, ed eventualmente come commentarle e come costruire su di esse delle battaglie politiche o culturali. Oggi alla riunione di redazione si decide che battaglia aprire ( in genere è una battaglia contro Renzi...) e poi si vede se ci sono notizie che possono essere utili per questa battaglia, e si lavora su di esse. Tutte le altre notizie, se c’è posto, nelle ultime pagine.