CON LA SENTENZA DEL 12 LUGLIO ISTITUTO ACCESSIBILE PIÙ VOLTE ANCHE PER I COSIDDETTI REATI DEI “COLLETTI BIANCHI”

ALESSANDRO PARROTTA

AVVOCATO, DIRETTORE ISPEG

Recentissima la sentenza della Corte Costituzionale che, ancora una volta, è stata chiamata a pronunciarsi su questioni delicate in materia di istituti deflattivi previsti e disciplinati dall’Ordinamento ( nel caso di specie, quello della sospensione del procedimento con messa alla prova), con una particolare sottolineatura sulle esigenze di ragionevolezza e proporzionalità che deve sempre caratterizzare l’anima della Giustizia penale. Parliamo della sent. n. 174 del 12 luglio 2022 della Consulta che ha dichiarato la parziale “illegittimità costituzionale dell’art. 168 bis, comma quarto, c. p. nella parte in cui non prevede che l’imputato possa essere ammesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova nell’ipotesi in cui si proceda per reati connessi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, con altri reati per i quali tale beneficio sia già stato concesso”.

Il caso riguarda fatti coevi a quelli contestati e avvinti dal vincolo della continuazione poiché in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Gli imputati avevano già beneficiato della messa alla prova in altro procedimento penale connesso, poi conclusosi con sentenza di estinzione del reato a seguito del positivo esperimento della messa alla prova.

Il GUP del Tribunale di Bologna sollevava questione di legittimità costituzionale, deducendo violazione dell’art. 3 Costituzione. In particolare, il giudice remittente riteneva di non poter accogliere allo stato la richiesta di accesso alla messa alla prova avanzata dagli imputati per la perentorietà della disposizione di cui all’art.

168 bis, comma quarto, c. p..

Il ragionamento posto a fondamento dell’ordinanza di remissione, accolto dalla Suprema Corte, si basa sulla constatazione “dell’irragionevole disparità di trattamento tra l’imputato cui tutti i reati commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso vengano contestati nell’ambito di un unico procedimento, nel quale egli ha la possibilità di accedere al beneficio della sospensione del procedimento con messa alla prova, e l’imputato nei cui confronti l’azione penale venga inizialmente esercitata solo in relazione ad alcuni di tali reati, e che si veda contestare gli altri, per effetto di una scelta discrezionale del pubblico ministero o di altre evenienze processuali, nell’ambito di un diverso procedimento, dopo che egli abbia già avuto accesso alla messa alla prova. Questo secondo imputato si trova così nell’impossibilità di ottenere una seconda volta il beneficio, cui avrebbe invece potuto accedere ove tutti i reati gli fossero stati contestati in un unico procedimento”.

In Supremo Consesso, che ha portato ad accogliere l’incidente di costituzionalità sollevato dal GUP di Bologna, poggia il proprio convincimento su un accertato vizio di irragionevolezza della norma censurata nei casi di procedimenti connessi tra loro ex art. 12, c. 1, lett. b) c. p. p. il cui corso processuale, per varie ragioni, non ha seguito una trattazione unitaria. Cristallina, sul punto, la Corte: “risulta irragionevole che quando, per scelta del pubblico ministero o per altre evenienze processuali, i reati avvinti dalla continuazione vengano invece contestati in distinti procedimenti, gli imputati non abbiano più la possibilità, nel secondo procedimento, di chiedere ed ottenere la messa alla prova, allorché siano stati già ammessi al beneficio nel primo. Ciò equivarrebbe a far dipendere la possibilità di accedere a uno dei riti alternativi previsti dal legislatore dalle scelte contingenti del pubblico ministero o da circostanze casuali, sulle quali l’imputato stesso non può in alcun modo influire”.

Del tutto sottoscrivibile la pronuncia che si pone in linea di continuità con la costante opera interpretativa della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di tutela delle persone imputate in un procedimento penale ovvero di quelle già definitivamente condannate. Si pensi alle “storiche” e più risalenti pronunce in materia di sospensione condizionale della pena o in materia di concessione del perdono giudiziale per i minori di diciotto anni ovvero in materia di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi fino alle più recenti in materia di ergastolo ostativo e “carcere duro”, innegabilmente orientate e sollecitate dalla giurisprudenza della Corte EDU. Tra le ultime, su quest’ultimo tema, anche per la sensibilità di chi scrive in qualità di difensore, la pronuncia della Corte Costituzionale n.

18/ 2022 ( avente il medesimo relatore “visionario” - di quella qui in commento, prof. Viganò) la quale, in accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice di legittimità, dichiarava una irragionevole compressione del diritto di difesa la sottoposizione a visto di censura anche della corrispondenza tra difensore e soggetti condannati in regime di 41 bis. L’arresto della Suprema Corte si pone come dirompente anche per tutte quelle ipotesi in materia di “white collar crimes” in cui stimati professionisti si vedano coinvolti in contemporanei procedimenti a carico di società nelle quali ricoprono incarichi di controllo. Di piccola “rivoluzione copernicana” si può allora forse parlare: il professionista chiamato a rispondere su più vicende avrà il diritto di accedere ( più di una volta) all’istituto della messa alla prova, con possibilità di estinzione di entrambi i procedimenti se l’esito delle prove risulta positivo, nei casi in cui gli stessi, connessi tra loro, seguano, per tempistiche d’azione ricollegabili a scelte di esclusiva competenza del Pubblico Ministero, binari differenti.