«Il rischio populismo anche nella magistratura è molto concreto», dichiara Rita Sanlorenzo, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione e candidata per AreaDg alle prossime elezioni per il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura nella categoria dei magistrati di legittimità. AreaDg è il cartello delle toghe progressiste nel quale è confluita Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura asso- ciata e di cui Rita Sanlorenzo è stata un’esponente di primo piano.

Consigliere, anche i magistrati stanno risentendo del cambiamento in corso nella società?

Non potrebbe essere diversamente. Per tornare al tema, bisogna non cadere nell’equivoco, i magistrati non devono conquistare il consenso da parte della società, ma piuttosto, come dice Luigi Ferrajoli, devono sforzarsi di ottenere la fiducia dei cittadini, prodigandosi per un servizio degno di questo nome e sforzandosi per rendere le proprie decisioni, se non da tutti condivisibili, però da tutti comprensibili. Io credo che la sovraesposizione personale, il ricorso a proclami e ad appelli al popolo finisca sempre per rivolgersi contro la stessa collocazione istituzionale della magistratura.

Si riferisce ai suoi colleghi più esposti mediaticamente?

E’ già prevista la sanzione disciplinare per chi viola la riservatezza sui processi o sulle indagini che sta svolgendo. Io credo che la ricerca di una visibilità mediatica sul piano personale, legata al tipo di attività che si svolge, non sia buona cosa e dovrebbe essere contrastata dall’interno. I magistrati rendono un servizio al Paese, per essere credibili devono evitare di presentarsi come singoli paladini della giustizia.

Il Csm nell’ultimo periodo è bersagliato dalle critiche. Alcuni consiglieri laici, come Antonio Leone, parlano di “delegittimazione strisciante”. Lo stesso vice presidente Giovanni Legnini ha fatto riferimento a “tendenze demolitrici pretestuose, con giudizi frutto della disinformazione mossi da puro spirito di contrapposizione”. Lei cosa pensa?

Credo che alcuni errori, e più di una sottovalutazione della sensibilità degli stessi magistrati, siano stati fatti. Senza eccezioni, compreso il gruppo di Area. In particolare si sarebbe dovuto coltivare meglio da chi opera nell’organo di autogoverno il rapporto con tutta la magistratura, con uno sforzo che consentisse di riavvicinare gli amministrati alla loro rappresentanza istituzionale. In qualche misura i colleghi hanno avvertito una chiusura autoreferenziale che ha impedito di comprendere il senso di certe decisioni, soprattutto in materia di nomine. In particolare non si è voluto dare quel segnale, che tutta la magistratura attende, che è veramente il merito quello che determina la scelta, e non l’appartenenza correntizia. Per battere la delegittimazione è indispensabile dare segnali chiari dell’abbandono di certe logiche. I magistrati devono riscoprire l’orgoglio nel loro autogoverno, quello che hanno provato in anni di forte contrasto e di una necessaria difesa dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura tutta, di cui credo che ci sarà presto un grande bisogno.

Cosa chiedono i colleghi che incontrate per la campagna elettorale?

Ovunque la richiesta è quella di una continuità nel dialogo con le realtà del territorio. Gli uffici giudiziari operano in condizioni e in situazioni ambientali diversissime fra loro. Il primo sforzo è quello di conoscere e di capire, e poi di spiegare le ragioni di ogni intervento. Ma ci chiedono anche di far sì che il Consiglio recuperi il ruolo politico che la Costituzione gli ha attribuito, e che si sforzi di porre al centro dell’attenzione generale la grande questione, quella del recupero dell’efficienza del servizio.

Lei si candida per la Cassazione. Il problema, ormai cronico, a piazza Cavour è quello dell’arretrato. Soluzioni?

Occorre anche qui che la politica, stimolata dal Consiglio, compia delle scelte. Siamo di fronte ad un bivio. O si sceglie di rivitalizzare la funzione di nomofilachia, oggi quasi impossibile visti i numeri dei processi, che non hanno pari nel resto del mondo, e dunque si fa in modo che l’intervento della Corte sia limitato alle questioni che riguardano l’interpretazione delle norme, oppure, come avviene ora, si immagina il giudizio di legittimità come un terzo grado di giudizio per tutti i processi, una sorta di sbocco naturale per tutte le cause, civili e penali.

C’è bisogno di un diverso approccio?

C’è bisogno di un serio esame della situazione, e poi dell’adozione delle misure necessarie. L’obbiettivo prioritario è quello di restituire dignità alla funzione costituzionale ed ordinamentale della Corte, e quindi di garantire l’uniformità dell’interpretazione: occorre il potenziamento di tutti gli strumenti anche organizzativi che possono essere messi in campo. Ma è fondamentale che a questi obiettivi puntino insieme alla magistratura, la politica e gli altri operatori del diritto, a partire dagli avvocati.

Tema rovente in questi anni sono state le nomine in Cassazione ed al Massimario. Si è parlato di nomine a “pacchetto”.

Il “pacchetto” dipende dal bando, che riguarda una pluralità di posti messi a concorso. La critica dipende dal fatto che ci sia un accomodamento fra i gruppi in cui ognuno si fa garante per i suoi, e che restino fuori quelli meritevoli che però non hanno riferimenti correntizi. Credo che per recuperare qualità occorra, oltre ad un impegno etico che deve riguardare tutte le componenti associative, una rivalutazione del ruolo della Commissione tecnica mista introdotta dalla legge come necessario supporto valutativo. Il Csm ha eliminato la possibilità di una articolazione dei giudizi, riducendo la decisione all’alternativa tra idoneità e non idoneità del candidato. Io sono per il ritorno ad una gradazione nelle valutazioni, come limite alla discrezionalità della decisione che al Consiglio è rimessa.

E sul fronte della trasparenza?

Vanno resi pubblici i curricula dei candidati per tutti i posti messi a concorso.

Sul Massimario?

Siamo per un suo potenziamento, o quantomeno per il mantenimento della sua piena funzionalità. Il suo ruolo è fondamentale per la nomofilachia, riguarda i compiti di massimazione e di redazione delle relazioni sulle questioni controverse.

Un’ultima domanda. Fra i suoi competitor per il collegio di legittimità c’è il presidente Piercamillo Davigo. Spesso sotto i riflettori per le sue esternazioni di politica giudiziaria. La sua opinione?

Sostengo da sempre con forza il dovere dei magistrati di partecipare al dibattito pubblico. Si può essere giudici imparziali in un causa anche se molto attivi nel dibattito politico. Spesso non condivido le opinioni che esprime, ma certo non auspico censure di nessun tipo. Ognuno deve trovare per sé la misura che ritiene adeguata. Saranno i colleghi a giudicare con il voto, come prevede la nostra Costituzione.