Se da un lato vengono stanziati fondi per migliorare l'assistenza psicologica nelle carceri, dall’altro il governo tenta nuovamente con la vecchia ricetta simile al mantra della costruzione di nuovi penitenziari: stringere accordi bilaterali con gli Stati africani per far scontare la pena nei loro paesi d'origine agli stranieri detenuti nelle carceri italiane. Questa mossa è stata presentata come una soluzione per affrontare il sovraffollamento carcerario. Eppure, dietro questa strategia si nascondono questioni critiche dovute dal sacrosanto rispetto dei diritti umani.

In questo vien in aiuto l’associazione Antigone che solleva dubbi sulla fattibilità di tali accordi e sui loro effetti pratici. È stato sottolineato che molti paesi di provenienza non hanno mostrato alcuna intenzione di accettare il rimpatrio dei propri cittadini detenuti all'estero. Questo potrebbe essere dovuto a vari fattori, tra cui costi elevati e carenze infrastrutturali nei sistemi penitenziari nazionali. Inoltre, l'esperienza passata ha dimostrato che gli accordi di questo tipo tendono spesso a rimanere sulla carta, senza tradursi in azioni concrete.

Come ricorda sempre Antigone, ne sentiamo parlare da quando era ministro il leghista Castelli. Se poi i paesi stranieri invocassero la clausola di reciprocità dovremmo riprendere i 3 mila italiani detenuti all'estero. Inoltre, Antigone sottolinea giustamente che trattare in modo differenziato i detenuti stranieri rispetto agli italiani potrebbe essere discriminatorio e ingiusto, soprattutto considerando che entrambi dovrebbero essere soggetti alla stessa giustizia.

Un altro aspetto cruciale sollevato dall'associazione riguarda i diritti umani. Il trasferimento forzato dei detenuti stranieri nei loro paesi d'origine potrebbe mettere a rischio il rispetto di tali diritti, specialmente in nazioni dove le garanzie legali e i trattamenti carcerari possono essere discutibili. Il caso emblematico dell'Egitto, ancora aperto riguardo alle torture e all'omicidio di Giulio Regeni, dimostra i rischi concreti legati alla possibilità di violazioni dei diritti umani in paesi terzi.

Inoltre, l'Italia stessa ha adottato normative volte a proteggere i detenuti da possibili abusi, come la legge del 2017 che vieta espulsioni, respingimenti ed estradizioni quando c'è il rischio di tortura. Ignorare questo rischio potrebbe essere un chiaro segnale di disattenzione ai principi fondamentali dei diritti umani. C'è anche da considerare l'impatto sociale e familiare di tali decisioni. Molti detenuti stranieri hanno legami familiari consolidati in Italia, compresi coniugi, figli e genitori.

Il trasferimento forzato in un altro paese potrebbe separare queste famiglie, causando ulteriore sofferenza e trauma. Questo aspetto umano dovrebbe essere tenuto in considerazione nel processo decisionale, insieme ai rischi per la sicurezza e i diritti dei detenuti. Pensare di risolvere il sovraffollamento attraverso questa via, rischia di essere l’ennesima propaganda. Nel frattempo ci avviciniamo alla soglia che fece scattare la sentenza Torreggiani.