Se la riforma del Csm ha lo scopo di risanare la magistratura, risolvendo i problemi venuti alla luce col caso Palamara e lo strapotere delle correnti, allora la strada da fare è ancora lunga. Ma se si guarda la proposta Cartabia dal punto di vista dell’apertura dimostrata nei confronti dell’avvocatura, allora, forse, un piccolo passo avanti pare esserci stato. Questo, almeno, è il parere di chi, quotidianamente, condivide le aule con i magistrati - i primi fruitori di questa riforma -, ovvero gli avvocati. E non ne fa mistero una delle voci più critiche nei confronti delle toghe, il presidente dell’Unione delle Camere penali Gian Domenico Caiazza. La principale critica del leader dei penalisti riguarda la prospettiva: la riforma, infatti, si concentra principalmente sul tema del sistema elettorale, come se fosse un problema assorbente. «Mi sembra, invece, francamente un problema marginale - spiega Caiazza -, nel senso che se si vuole in questo modo incidere sul tema delle correnti si percorre una strada illusoria. Non è modificando il sistema elettorale che si ferma la deriva correntizia. Magistrati di esperienza hanno evidenziato che le correnti si organizzeranno in base al sistema elettorale. E il problema non sono le correnti in sé, lo è il fatto che non si tratta più di un confronto di idee, ma di veri e propri partiti all’interno di cordate di potere». Ma non solo: per Caiazza sono largamente insoddisfacenti anche le soluzioni pensate per quei punti che l’avvocatura considera cruciali per rimediare alla crisi della magistratura. Il punto principale riguarda le valutazioni di professionalità, per le quali si va verso un’articolazione del giudizio in positivo in discreto, buono o ottimo. «Francamente non è un problema relativo ad una maggiore specificità dei criteri - prosegue il leader dei penalisti -. Quello che continua a mancare è un meccanismo di giudizio di professionalità che responsabilizzi il magistrato per gli atti che compie nella sua ordinaria attività. Non è semplice tradurre questa esigenza normativamente, ma è indispensabile».

Il punto non è soltanto rendere più seria e credibile la valutazione ( attualmente i pareri positivi superano il 99%), ma, appunto, responsabilizzare la toga per gli atti che compie. «Serve una misura: non si tratta di giudicare negativamente un pm ad ogni assoluzione, stiamo parlando di una valutazione ogni quattro anni, sui grandi numeri e sui discostamenti di quel magistrato dalle medie generalizzate dei valori - spiega -. Se la media delle modifiche in appello è del 40% e quel giudice monocratico vede modificato il 70% delle sue decisioni allora è chiaro che c’è qualcosa che non funziona».

Le proposte di modifica, dunque, affrontano in maniera marginale il problema, secondo i penalisti. E lo stesso discorso vale per i magistrati fuori ruolo. Il lato positivo, evidenzia Caiazza, è che finalmente se ne cominci a parlare, grazie anche al lavoro di pressing dell’Unione. Ma la bozza della ministra accenna genericamente ad una riduzione del numero dei distacchi, rimandando ad un secondo momento i criteri e la percentuale di tale riduzione. Un discorso troppo generico, dunque, anche se segna una strada. «La riduzione deve essere drastica, prossima all’annullamento del fenomeno - aggiunge Caiazza -, ma il problema è anche vedere in quali ruoli occorre con certezza che non vi siano magistrati, per non determinare quella commistione tra poteri dello Stato». Insomma, nulla di nuovo secondo il presidente dell’Unione, insoddisfatto anche delle previsioni in merito alle porte girevoli tra politica e magistratura. «Idee vecchie e assai poco efficaci», aggiunge, salvo poi evidenziare quanto di positivo emerge per l’avvocatura. A partire dal diritto di voto nei consigli giudiziari, «che va salutato con favore». Così come la previsione che all’interno di organismi di vertice del Csm ci sia un’apertura anche ad avvocati e professori. «È un buon segno - prosegue -, ma ci aspettavamo che questo avvenisse anche per la Scuola superiore della magistratura, dove continua ad esserci autoreferenzialità nella formazione professionale, una chiusura agli altri punti di vista dell’esperienza forense e giudiziaria».

Arturo Pardi, consigliere del Cnf, che assieme alla presidente Maria Masi e al consigliere Piero Melani si è confrontato con la ministra sia sul testo elaborato dalla Commissione Luciani sia successivamente, ha ribadito la necessità di un ruolo del Consiglio nazionale forense in ordine alla designazione dei componenti laici del Csm, prediligendo professionalità e competenza specifica. «Questo è un punto che francamente non mi pare sia stato toccato dalla bozza - spiega -, ma che ci sembra importante». L'avvocatura istituzionale ha espresso contrarietà al fenomeno dei magistrati fuori ruolo, rimarcando la necessità di porre un limite alle porte girevoli tra magistratura e politica. Ma il tema più importante è quello relativo al ruolo degli avvocati nei consigli giudiziari, evidenziando «l'opportunità di coinvolgere i consigli dell’Ordine sulla promozione e gli avanzamenti di carriera dei magistrati, in modo più chiaro ed efficace di quanto contenuto nella stesura della proposta Luciani». L’idea è quella di introdurre un parere obbligatorio motivato su vari parametri che comunque pervenga ai consigli giudiziari affinché sia oggetto di valutazione. «Per noi è importante che il parere degli utenti sia esaminato spiega Pardi -. Ciò in qualche modo rappresenta un argine al correntismo che trova il suo aspetto deleterio quando diventa un veicolo di carriera». E dell’importanza del ruolo degli avvocati nei consigli giudiziari ne sa qualcosa Giuseppe Limongelli, rappresentate del foro di Foggia, vittima, assieme ai colleghi del distretto, dell’editto bulgaro con il quale fu eliminato il diritto di tribuna per i laici del Consiglio giudiziario di Bari. «Ottimisticamente penso sia un buon inizio - spiega al Dubbio -, per quanto riguarda almeno la partecipazione dei consiglieri giudiziari a quella parte di adunanza che gli era preclusa finora, con partecipazione più attiva e pari diritto di voto. Ma lo ritengo, appunto, un inizio, perché credo che l’interlocuzione tra magistratura e avvocatura debba avere connotazioni sempre più specifiche. I magistrati devono abbandonare l’autoreferenzialità, questa nicchia in cui si sono chiusi, e avere più fiducia negli avvocati».