In attesa di verificare domani gli esiti del tavolo convocato al ministero, dove sono stati invitati il presidente del Cnf Andrea Mascherin e il vertice dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna, il possibile orizzonte di una riforma delle intercettazioni va disegnato in base a due aspetti.

Il primo riguarda l’iniziale obiettivo indicato dal guardasigilli Alfonso Bonafede: evitare che vadano sprecate le risorse impiegate per creare gli archivi riservati in tutte le Procure d’Italia. Si tratta della sola innovazione prevista dal decreto Orlando che abbia chances di sopravvivere.

In particolare, il ministro vuole recuperare la norma che verrebbe introdotta con il nuovo articolo 89 bis del codice di procedura penale, secondo cui, tra l’altro, «ogni accesso» all’archivio, anche da parte degli «ufficiali di pg delegati all’ascolto», è «annotato in apposito registro, gestito con modalità informatiche». Un modo per assicurare la «tracciabilità» del percorso compiuto, all’interno degli uffici, dal materiale intercettato, senza preclusioni per il difensore.

Il secondo aspetto da considerare è il nuovo allarme provocato dagli “eccessi mediatici” del caso Palamara. Nel suo intervento a “Porta a porta” di due giorni fa, e ancora ieri a Radio Capital, Bonafede ha detto che «sui trojan non si fanno passi indietro».

Ha intenzione però di evitare che le comunicazioni raccolte con uno strumento «così invasivo» finiscano integralmente sui giornali. Il confronto potrebbe concentrarsi su questo. E in particolare su una scelta: limitarsi a proteggere meglio le sole comunicazioni afferenti alla sfera personale più intima; oppure considerare almeno in parte il rischio di influenzare il giudice con la stessa diffusione di notizie relative all’indagato e rilevanti sul piano pubblico ma non sul piano penale. È l’irrisolta questione della verginità cognitiva del giudice, che il processo mediatico manda a farsi benedire.