Nonostante siano diminuite le pendenze dei casi italiani dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, il nostro Paese rimane comunque al quinto posto nella classifica degli Stati con il maggior numero di ricorsi. Tra i nostri ricorsi spicca al primo posto, con 1200 casi, il problema dell’irragionevole durata del processo e la mancata applicazione della legge Pinto. Ricorsi che sono però destinati ad aumentare, soprattutto dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2018 che ha dichiarato illegittimo l’articolo 4 della legge n. 89 del 2001, nella parte “in cui preclude la proposizione della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione della durata ragionevole si assume essersi verificata”.

Parliamo della relazione relativa all’anno 2018, presentata in Parlamento, in merito all’esecuzione delle sentenze Cedu da parte dell’Italia. Come detto il nostro Paese continua a pesare sul carico di lavoro della Corte di Strasburgo considerato che è al quinto posto nella classifica degli Stati con il maggior numero di ricorsi e che il carico italiano rappresenta il 7% del totale. In vetta c’è la Russia ( 11.745), seguita dalla Romania ( 8.503), dall’Ucraina ( 7.267) e dalla Turchia ( 7.107). Dal documento, risulta che l’Italia migliora la posizione per numero di condanne, con 11 sentenze ( nel 2017 erano state 28) e si colloca al settimo posto preceduta da Russia ( 248), Turchia ( 146), Ucraina ( 91), Romania ( 82), Ungheria ( 38), Grecia ( 35), Moldavia ( 33), Lituania ( 32) e Bulgaria ( 29). L’accertamento delle violazioni ha riguardato l’articolo 3 ( divieto di tortura e trattamenti disumani o degradanti, con 2 violazioni), l’articolo 6 ( diritto all’equo processo, con 5 condanne), il principio nulla poena sine lege ( articolo 7, con 1 violazione), il diritto al rispetto della vita privata e familiare ( articolo 8, con 4 violazioni), il diritto di proprietà ( articolo 1, Protocollo n. 1, con 3 violazioni), il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva ( articolo 13, 1 violazione). È aumentato in modo sensibile, invece, il numero di decisioni di carattere procedurale nei confronti dell’Italia, che passa dalle 49 del 2017 alle 94 nel 2018. Ben 70 decisioni hanno avuto al centro la radiazione dal ruolo dei ricorsi perché è stato raggiunto un regolamento amichevole tra le parti o perché vi è stata una dichiarazione unilaterale del Governo accettata dalla Corte.

Nella relazione, tra le varie sentenze di condanna, si richiama l’attenzione sulla sentenza pronunciata per violazione dell’articolo 3 sul ricorso Provenzano c. Italia, presentato dall’ex boss di Cosa nostra sottoposto al 41 bis. La violazione dell’articolo 3 è stata ravvisata nell’insufficienza della motivazione in relazione alla mancanza di una esplicita valutazione del deterioramento dello stato cognitivo del detenuto nell’ultimo decreto di proroga del regime speciale. Secondo la Corte, seppure possa essere necessario sottoporre a restrizioni, rispetto al normale regime carcerario, un particolare detenuto, tali restrizioni devono essere di volta in volta giustificate dall’esistenza di speciali necessità, non potendosi dare per assodata “una volta per tutte” la pericolosità sociale estrema di un soggetto pur condannato per la commissione di gravissimi e reiterati fatti criminosi, ma dovendosi motivare le restrizioni al normale regime e l’esclusione dai benefici previsti per la generalità dei reclusi, per periodi di tempo limitati alle dimostrate esigenze eccezionali.

La Corte ha ripetutamente ritenuto che, quando si valuta se la proroga dell’applicazione di alcune restrizioni ai sensi del regime previsto dall’articolo 41- bis raggiunga la soglia minima di gravità richiesta per rientrare nel campo di applicazione dell’articolo 3, la durata temporale deve essere esaminata alla luce delle circostanze di ciascuna causa, il che comporta, inter alia, la necessità di accertare se il rinnovo o la proroga delle restrizioni contestate fossero, di volta in volta, giustificati o meno. Secondo i giudici europei deve soprattutto essere smantellato il principio dell’automatismo, per fare in modo che siano i giudici a decidere caso per caso, con riguardo al contemperamento delle esigenze di tutela della sicurezza pubblica e a quelle di salvaguardia dei diritti della persona detenuta, entrambe meritevoli di considerazione.