Il procuratore nazione antimafia Federico Cafiero De Raho ha fatto sapere che stanno indagando sulle rivolte carcerarie avvenute tra il 7 e il’11 marzo scorso. Quindi vuol dire che gli inquirenti hanno il sospetto che ci sia stata una regia mafiosa, una strategia fatta a tavolino coordinando i 49 istituti penitenziari del territorio nazionale protagonisti delle violente rivolte. A che pro questa presunta strategia da parte della criminalità organizzata? Un’arma di ricatto per ottenere i domiciliari, benefici vari e poi, secondo la versione che è stata fatta trapelare da alcuni magistrati e ipotesi giornalistiche, ottenuti con le famigerate “scarcerazioni”, o meglio la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute nei confronti di circa 500 detenuti reclusi per reati mafiosi. Misure, ricordiamo, concesse in tutta autonomia dai magistrati di sorveglianza.

I detenuti comuni non si immolano per la mafia

Attendendo che l’indagine da parte della Direzione nazionale antimafia faccia il suo corso, è il caso di riportare i dati oggettivi. Il primo: non è plausibile pensare che i detenuti comuni, tra i quali gli extracomunitari, si siano immolati per la causa mafiosa arrivando, in alcuni casi, fino alla morte. Tutti coloro che hanno partecipato alle rivolte sono stati esclusi dal decreto “cura Italia”, la parte relativa alla possibilità di scontare la pena a casa se gli rimanevano meno di 18 mesi di carcere. Non solo. Oltre all’esclusione, rischiano di finire tutti sotto indagine e infatti, notizia di qualche giorno fa, la procura di Milano ha reso pubblico che 12 detenuti comuni del carcere di San Vittore sono indagati per l'episodio della rivolta. Si tratta di cinque italiani e sette stranieri dell'Algeria, del Marocco, della Tunisia e del Gambia. Presto ci saranno, molto probabilmente, altri detenuti che saranno coinvolte dalle procure per quanto riguarda le rivolte delle altre carceri.Altro dato da prendere in considerazione è che nella maggioranza delle carceri ci sono state proteste pacifiche, semplici battiture o sciopero della fame. In altre invece non è accaduta nulla, soprattutto quelle carceri – rare – dove l’attività trattamentale funziona e c’è un dialogo tra la direzione e i detenuti stessi.

Il caso del carcere di Bologna

Negli stessi istituti dove sono scoppiate le rivolte, solo alcune sezioni vi hanno partecipato. Prendiamo il caso emblematico del carcere di Bologna. È composto da una sezione giudiziaria con una palazzina di tre piani, mentre il penale è una sezione indipendente dalla giudiziaria che ha degli spazi propri, dove c’è perfino la fabbrica metalmeccanica. Mentre la sezione giudiziaria è un mondo a parte – dove le misure trattamentali sono quasi del tutto inesistenti -, quella penale ha diverse attività e il sistema rieducativo risulta efficace. Non è un caso che i detenuti che vivono in quest’ultima sezione, non hanno partecipato alle violente proteste. Così come non è stato un caso che, alla sezione giudiziaria stessa, gli unici che non si sono uniti con gli altri detenuti sono coloro che formano una squadra di rugby. La causa delle rivolte, come ha spiegato il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, sono nate da diversi fattori che si sono concatenati. Prima di tutto un grande errore comunicativo che ha fatto percepire il decreto, in fase di approvazione, come una norma che avrebbe chiuso tutto per molti mesi. Questo, a chi vive in una realtà già chiusa e dove l’emergenza coronavirus si amplifica di più rispetto a chi vive nel mondo libero, ha provocato una duplice ansia. Non a caso Modena, il carcere centro della rivolta e dove ci sono scappati i morti, ha visto i primi casi accertati di Covid. Alla notizia di un primo contagio, la protesta si è accesa fino a degenerare. Come avrebbe potuto, la mafia, anticipare a tavolino una protesta del genere? L’altro dato certo è che, tranne rare eccezioni, i detenuti accusati o condannati definitivamente per mafia, non hanno partecipato alle proteste. In alcuni casi sì, ma si tratta degli istituti campani dove i camorristi – che hanno una struttura e modus operandi diverso dalla mafia– hanno via via partecipato. Ma questo, per chi conosce le vicende carcerarie, non sorprende. Basterebbe, ad esempio, leggere il libro “Uscire dalla Mafia: Storia di uno “sgarrista” scritto a quattro mani da Ruggero Toni e Marco Aperti. È il racconto, vero, in prima persona di un ex camorrista che ha vissuto il carcere, una storia sofferta che alla fine si conclude con un riscatto. Racconta che quando negli anni 90 finì recluso nel supercarcere di Sulmona, a un certo punto scoppiò una rivolta guidata dai camorristi perché si lamentarono della mancata concessione dei permessi per trascorrere qualche giorno in famiglia.

La mafia non partecipa alle rivolte in carcere

Ma la mafia siciliana è diversa. Mai, nella storia, ha partecipato alle rivolte, anzi le hanno da sempre ostacolate. Sono maggiormente rispettosi delle regole penitenziarie rispetto ai detenuti “comuni” e apprezzano l’ordine e la disciplina anche se ciò comporta per loro alcune privazioni che sul momento possono contestare. Il detenuto mafioso “accetta” l’istituzione carceraria in quanto è portatore di un suo sistema di regole, non la contesta drasticamente come fanno i detenuti comuni o quelli politici tipo gli anarchici.L’accettazione del carcere da parte del detenuto mafioso deriva anche dalla sua consapevolezza di dover trascorrere un lungo periodo di tempo di reclusione e, pertanto, ha generalmente interesse a una apparente tranquillità, perché sa che disordini o atti di indisciplina che turbano la vita del carcere provocano maggiori controlli e comportano l’adozione di provvedimenti quali trasferimenti e l’irrigidimento da parte degli operatori penitenziari. Ed è esattamente quello che è successo dopo le rivolte. Trasferimenti, presunti pestaggi da parte degli agenti penitenziari e norme più dure. Siamo sicuri che ci sia stata una regia mafiosa dietro queste rivolte?