È falso che le pene alternative diminuiscono le recidive? Ancora una volta, tramite un articolo de Il Fatto, si mettono in discussione i dati sulla recidiva. Questa volta, il Fatto intervista Roberto Russo, un ricercatore e docente di Diritto, il quale cita lo studio che risale al 2007 elaborato dall’Osservatorio delle misure alternative del Dipartimento dell’amministrazione della polizia penitenziaria. Il ricercatore sorridendo dice che “Molti lo citano, ma pochi l’hanno letto”. Sorridiamo anche noi visto che l’abbiamo letto eccome. Così come l’ha letto Luigi Ferrarella, giornalista di punta del Corriere della Sera che con un articolo ha decostruito per bene l’articolo del Fatto a firma di Gianni Barbacetto. Lo studio che fa sorridere il ricercatore segnala che nel 1998 furono scarcerate 5.772 persone e che 3.951 queste si trovavano di nuovo dentro nel 2005: quasi il 70 per cento era tornato a delinquere. Sempre dai dati elaborati dal ministero emerge che la percentuale dei recidivi scende invece al 19 per cento se il rilevamento si restringe a chi è stato destinatario di misure alternative. Altro dato interessante che emerge da questo studio è l’efficacia dell’affidamento in prova al servizio sociale rispetto al reinserimento sociale dei condannati. Un elemento importate visto che la riforma dell’ordinamento penitenziario prevedeva proprio l’implementazione di questa misura alternativa alla detenzione. Il ricercatore intervistato da Il Fatto, in sostanza dice che questo studio non è attendibile visto che dalla statistica restano fuori quelli che hanno compiuto reati, ma non sono stati presi e coloro che ancora non hanno ricevuto una condanna definitiva. Qui però siamo nel campo della probabilità, a meno che non viviamo in un romanzo di Philip Dick, dove si ha la possibilità di arrestare una persona prima che commetta un reato. Non esistono dati scientifici dove si attesta che le stesse persone uscite dal carcere nel 1998 sono quelle che hanno commesso un reato, ma ancora non arrestate. Così come non esiste una sfera di cristallo che ci indica le persone che saranno condannate definitivamente. La recidiva si calcola sulla sentenza definitiva e non sull’arresto o al fatto che alcune persone ancora non sono state individuate. Il dato emerso da quello studio è chiaro. Così come è stato chiarissimo un altro riscontro statistico, con un approccio scientifico ancora più rigoroso: quello elaborato nel 2012 e condotto dall’Einaudi Institute for Economics Finance ( Eief), dal Crime Research Economic Group ( Creg) e dal Sole 24Ore. La ricerca, prima in Italia nel suo genere che, su basi scientifiche, misura il rapporto di causalità tra modalità di esecuzione della pena e recidiva, dimostra come le pene alternative possono essere la soluzione per ottenere una significativa riduzione della recidiva ( fino a 9 punti percentuali), trasformando il carcere in una fabbrica di risocializzazione, e non del crimine. La ricerca evidenzia che, a parità di pena da scontare in carcere, chi ha avuto la possibilità di trascorrere più tempo in un carcere “aperto” – il preludio all’ammissione dei detenuti a espiare parte delle loro condandi ne in misure alternative al carcere - ha una recidiva inferiore di chi invece è stato detenuto più a lungo in un tradizionale carcere “chiuso”. Per ogni anno passato nel primo tipo di carcere, invece che nel secondo, la recidiva si riduce di circa 9 punti percentuali. Un abbattimento rilevante, con conseguenze importantissime in termini di risparmi, ( dati i costi della recidiva), di miglioramento della sicurezza sociale e di riduzione del sovraffollamento carcerario. I dati contano più delle opinioni e i sorrisetti: come ha rilevato il Consiglio d’Europa, lì dove sono stati costruiti nuovi penitenziari per arginare il sovraffollamento si è spesso registrato un incremento della popolazione carceraria, senza alcun vantaggio in termini di sicurezza sociale. Proprio per questo motivo diverse direttive europee premono per le pene alternative. Non è una questione ideologica, ma puramente scientifica.