La Corte costituzionale, con la sentenza n. 24 del 2025, ha dichiarato incostituzionale la norma che vietava per due anni i permessi premio ai detenuti imputati o condannati per reati commessi durante l’esecuzione della pena. Una decisione storica che ridisegna i confini tra giustizia punitiva e funzione rieducativa, riconoscendo maggiore autonomia ai magistrati di sorveglianza e tutelando i diritti fondamentali dei detenuti. Il provvedimento nasce dal ricorso di G. K., detenuto dal 2017 per tentata rapina e omicidio. Dopo anni di buona condotta, aveva ottenuto permessi premio per ricostruire i legami familiari.

Nel marzo 2023, però, fu accusato di aver tentato di introdurre droga in carcere al rientro da un permesso. Pur non essendo ancora condannato per questo fatto ( il processo è ancora in corso), la legge penitenziaria (art. 30- ter) gli precluse automaticamente nuovi permessi fino al 2025. Fabio Gianfilippi, magistrato di Sorveglianza di Spoleto, ha sollevato il conflitto costituzionale, denunciando l’irragionevolezza di un sistema che equipara l’imputato al condannato, ignorando i progressi del detenuto.

La Corte costituzionale ha evidenziato due profili di incostituzionalità. Il primo riguarda la violazione della presunzione di innocenza (art. 27 Cost. e art. 6 Cedu) dove la norma trasformava una semplice imputazione in una “presunzione di colpevolezza”, privando il detenuto della possibilità di difendersi. Come sottolineato nella sentenza: «Una disposizione che vincola il giudice a presumere colpevole l’imputato sottrae ogni margine di valutazione autonoma sulla reale consistenza del fatto». La Consulta ha richiamato la giurisprudenza europea (Cedu e Carta dei Diritti Ue), che estende la presunzione di innocenza a tutti i procedimenti, non solo a quello penale.

Il secondo profilo riguarda la lesione della funzione rieducativa della pena, ovvero l’articolo 27, comma 3, della Costituzione. L’automatismo legale ignorava completamente il percorso individuale del detenuto. La Consulta ha ricordato che “il magistrato di sorveglianza deve valutare i progressi concreti, non applicare divieti predefiniti”. Un principio già affermato in passato (es. sentenze numero 186/ 1995 e 173/ 2021), ma disatteso dalla norma cancellata.

La decisione ha un’importanza pratica enorme. In carcere, infatti, sono frequenti imputazioni per reati come il possesso di cellulari o piccoli traffici, spesso contestati con procedimenti lunghi. Senza una condanna definitiva, molti detenuti vedevano bloccati i benefici per anni, pur mostrando miglioramenti. La Corte costituzionale ha specificato che il giudice di sorveglianza può ( e deve) considerare anche queste accuse, ma senza subordinare la decisione all’esito del processo.

Ad esempio, se un detenuto è accusato di introdurre uno smartphone, il magistrato valuterà se quel gesto compromette davvero la sua affidabilità, tenendo conto del comportamento successivo. La sentenza ribadisce che il sistema penitenziario deve essere flessibile e individualizzato. Anche in caso di condanna definitiva, il magistrato può concedere permessi premio se ritiene che il reato commesso non pregiudichi la rieducazione. Come scrive la Consulta: «Il rispetto del principio rieducativo esige che il giudice resti libero di valutare il concreto rilievo del fatto, tenendo conto dei contributi della difesa». Un passaggio cruciale, che restituisce centralità alla figura del magistrato di sorveglianza, spesso oscurata da automatismi. Tale decisione segna un passo avanti verso un carcere più umano e costituzionalmente orientato. Cancellando una norma del 1975, la Corte costituzionale ha accolto gli inviti lanciati già nel 1997, allineando l’Italia agli standard europei.